Una certa retorica
della cura e del materno entrano con facilità nella strumentazione che si
appronta quando si vuole rispondere alla domanda ma allora, in che cosa sono
diverse le pratiche economiche segnate dalla differenza femminile?
Come dovrebbe
essere ormai chiaro, sono affascinata dalla possibilità di mettere in relazione
la critica all’insostenibilità
fondamentale dell’attuale sistema economico
- socialmente disastroso, dissipatore di risorse ormai all’esaurimento,
potenzialmente in grado di compromettere l’ambiente che ha reso possibile la
sopravvivenza sin qui della specie umana - e pensiero femminista. Lo sono
perché penso che l'economia non sia l’astratto gioco scambio tra inesistenti
monadi neutre razionali e assolutamente intercambiabili tra loro (ed
esclusivamente orientate a ottenere il massimo profitto con il minimo
sforzo) ma piuttosto l'insieme delle pratiche, delle norme e delle
relazioni con cui riproduciamo le condizioni materiali della nostra esistenza
su questo pianeta. Un insieme di pratiche, norme, relazioni calato nella nostra
contingenza di esseri sessuati, sociali, dipendenti da una quantità e qualità variabile di relazioni emotive,
fisiche, affettive dalle quali non possiamo prescindere. Nello stesso modo,
l’economia, dunque, non può prescindere
dal nodo di come sono costruite le relazioni fra i generi.
Relazione
imprescindibile e necessaria alla nostra venuta al mondo è un utero di donna
che ci ospiti e partorisca: noi non
possiamo esistere senza di esso, senza una mediazione materna. E’ una
condizione di dipendenza e diseguaglianza, di relazione e legame che ci segna e
caratterizza tutti e tutte – qualunque sia la nostra traiettoria successiva. In
questo senso dichiara la nostra natura umana come cosa profondamente diversa
dalla anomia discreta di esseri neutri, interscambiabili, perfettamente pari
l’uno all’altro che l’economia classica pone alla base delle sue speculazioni.
Quegli esseri, come argomenta molto bene David Graeber, possono funzionare
molto bene come proiezioni matematiche, ma semplicemente non esistono. Le
persone reali non esistono se non per via del fittissimo, inestricabile
intreccio di rapporti che le mette letteralmente al mondo: rapporti fisici, simbolici,
morali – economici; ed è qui a mio parere la cifra del materno, non tanto in un
suo esercizio oblativo e illimitato volto a sanare i guasti del mondo, quanto
nel suo metterci sempre e di nuovo di fronte al tratto fondamentale della
nostra condizione umana.
Insistere fortemente sul ruolo delle donne in alcune società tradizionali o di zone particolarmente sfruttate e degradate del pianeta come chiave per esperienze di economia comunitaria, alternativa ed equa no è sbagliato, intendiamoci. Questo tipo di esperienze, spesso straordinariamente interessanti da cui abbiamo molto imparato e molto abbiamo da imparare, sono senz’altro decisive per i contesti in cui hanno vita e anche per avviare una trasformazione profonda nei nostri contesti economici e sociali. A mio parere il rischio è piuttosto quello di comunicale con un linguaggi e metafore che tendono a sovrapporre, senza troppo approfondire, il piano dell'esperienza storica femminile e quello di una vocazione “naturale” alla cura e alla riparazione. Di scivolare quindi dalla strumentazione necessaria a mutare relazioni sociali e rapporti di forza, a riorientare la pratica economica e dalle concrete condizioni in cui questo si realizza in altre parti del mondo - e in cui potrebbe essere realizzata qui a quello della costruzione di un mito di salvezza, che, alla ricerca affannosa di una via d’uscita dalla tragedia del presente, prenda la scorciatoia di un’identità femminile per definizione buona e non violenta, inchiodando contemporaneamente però le donne ad una eterna maternità sociale e alla cura del mondo non in quando esseri umani dotati della capacità di scegliere ma in quanto segnate da un destino “naturale”.
Con questo,
ripeto, non disprezzo l’enorme potenziale della cura come pratica economica, e
come pratica economia alternativa allo scambio proprietario; tutt’altro.
Neppure tantomeno disprezzo l’esperienza storica femminile, risorsa preziosa e
imprescindibile per ripensare l’umano e il suo stare al mondo. Rifiuto soltanto
che possa esserci qualcosa che decida per noi, ogni singolo o singola ricrea e
rifa il mondo nei suoi significati, nei ruoli, nelle identità di genere, ogni
istante. Non lo fa nel vuoto: lo fa nella fitta trama di dipendenze che lo
definisce e sostiene; ma in questo è sol*, sì, né il divino né la natura
divinizzata e idealizzata lo fanno per lui/lei. Così come la natura umana è
definita dalla sua relazione fondamentale con altri esseri umani, la condizione
umana è anche una condizione di solitudine ontologica, una solitudine che
presuppone sempre, che lo vogliamo o no, l’esercizio della scelta.
Le condizioni,
l’esperienza e le pratiche della riproduzione umana non sono quindi importanti
in quanto la maternità ha una funzione sociale nel senso di compiere un atto
“utile” alla società. In senso strettamente biologico non ha senso: la
trasmissione genetica avviene da individuo a individuo e non esiste un
interesse di specie. Si insiste sull’interesse della specie perché anche ad
essa, alla cooperazione umana e animale all’interno della stessa specie si
vogliono attribuire, con la cogente necessità del dato di natura, le
motivazioni egoistiche che si attribuiscono agli individui monadi nei loro
scambi economici astratti. Essere venuti
al mondo, ed essere venuti al mondo da un corpo di donna è presupposto di
qualunque socialità umana. In questo le donne non fanno l’interesse di nessuno
– potremmo discutere se fanno quello dei propri geni, ma qui non ci importa.
Quello che qui è importante è assumere finalmente a pieno titolo che il mondo è
popolato da (minimo – non mi è possibile aprire ora la discussione sulle
identità sessuali plurime) due sessi e generi che hanno, rispetto alla
riproduzione umana, fisiologia, esperienze, vissuti ed esigenze diverse. Che in
un precario equilibrio segnato costitutivamente da queste diverse esperienze e
quindi dal conflitto riproducono istante per istante le condizioni della
propria esistenza. Così come non esiste l’armonia della natura – è un mito che
descrive con falsa coscienza una condizione temporanea fluttuante e precaria
segnata dal dolore, dalla perdita e dalla morte tanto quanto dalla abbondanza e
dal benessere, non esiste l’armonia tra i sessi.
La vera durezza
dell’essere umani è che non esiste nessun cammino segnato. Possiamo scegliere,
dobbiamo scegliere se impostare tra noi relazioni pacifiche e libere,
cooperative e accoglienti o gerarchiche e violente, se interrogarci sul
significato della giustizia e dell’uguaglianza o esercitare ciecamente il
potere quando ne abbiamo la possibilità, se vogliamo essere egoisti e predatori
o generosi e in ascolto. Sta soltanto a noi.
Paola
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