28 aprile 2011

Vogliamo tutto, ma tutto è quello che vogliamo?

We want everything! But is everything what we really want?
Job, career, maternity for... Wonderwomen

A Bologna è tempo di elezioni. Qualche sera fa ascoltavo una giovane candidata di una lista di centrodestra raccontare che alla notizia della sua candidatura molte persone avevano osservato che, così facendo, “aveva scelto la carriera”. E che lei rifiutava questa opzione: “io voglio tutto”, diceva, figli, famiglia e carriera.
La giovane candidata era brillante e disponibile a mettersi in gioco in una sede storica del femminismo cittadino; non proprio il suo terreno, si intuiva. L'affermazione suonava come una conferma di tante parole d'ordine del femminismo, passato e presente, e per questo e per la sua spontaneità è stata immediatamente circondata da una corrente di simpatia. Che non voglio mettere in discussione, sarebbe davvero ingeneroso.
E' al femminismo che, ancora una volta, è giusto porre la questione, perché il femminismo ci ha insegnato una pratica di vigile coscienza e autocoscienza, individuale e di gruppo. Vogliamo tutto è uno slogan straordinario nella sua parte che allude al rifiuto consapevole della scissione tra pubblico e privato, tra razionalità e affettività, tra corpo e mente che è una delle pratiche più violente e pervasive della disciplina maschile dei generi e delle donne travestita da neutro universale. Vogliamo tutto è uno slogan ambiguo nel suo alludere ad un modello di onnipotenza e perfezione femminile con cui ci tengono in scacco nelle nostre vite concrete e quotidiane, nelle faccende di tutto i giorni. Non si può avere tutto – e non si tratta solo di arrendevole conformismo e vigliaccheria travestita da saggezza. Sarebbe ora che noi donne e femministe ci interrogassimo con più onestà sulla forma che la complicità femminile prende quando si manifesta come desiderio/aspirazione alla capacità di tenere miracolosamente insieme tutto. Non solo perché questo fa pagare a noi stesse un prezzo altissimo, che ben conosciamo e che è tutto interamente e solo nostro. I limiti esistono: va ammesso che la cura è spesso un lavoro spossante, totalizzante, faticoso, non sempre creativo e gioioso, che può escludere o limitare fortemente l'impegno in altre sfere della vita. Non ammetterlo, non riconoscerlo e riconoscerselo rovescia interamente su noi wonderwomen e sulle nostre straordinarie doti individuali quello che è un compito squisitamente sociale: costruire una mondo basato su relazioni sociali e di genere in cui, mentre si riconosce l'altro valore della cura, non lo si attribuisce solo alle donne o ai “servizi” ad esse dedicati (presto tagliati come un lusso incomprensibile alle prime difficoltà, se non si fa questo passaggio); e sarebbe a mio parere una società in cui per forza il pil, il denaro e l'accumulazione di ricchezza verrebbero perlomeno fortemente ridimensionati come esclusivi compiti umani.
Nella megamacchina del turbocapitalismo(di cui le donne, come dice bene Picchio, sono gli invisibili servo-meccanismi) per la cura, per i figli (o gli anziani, o i malati) non ci può essere davvero posto. Siamo bravissime, è vero, simpatica candidata: ma è ora di dire agli uomini che noi non possiamo fare tutto, e che se non vogliamo tutto, almeno sappiamo tutto quello che vogliamo.

Paola

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