20 aprile 2012

Il femminismo italiano dai '70 ai '90: appunti per una storia

Riprendiamo un discorso già iniziato*, ampliandolo.

Non è facile offrire una prospettiva storica del femminismo italiano poiché ancora oggi manca, per l’Italia, un’analisi storiografica complessiva e di largo respiro. Questo evidenzia un problema non solo di ordine pratico, relativo alla ricostruzione della varietà e molteplicità sia degli inizi che dei collettivi, ma spinge a riflettere anche sulla difficoltà di rielaborare la propria storia da parte delle protagoniste.


C’è stata una forte discussione, ed il dibattito è tutt’oggi aperto, sulla derivazione del neofemminismo dal movimento degli studenti o sulla autonomia e discontinuità con questa esperienza.
Le due cose, in realtà, sono meno contrastanti di quanto non appaiano, proprio a causa della molecolarità del neofemminismo italiano. Se da un lato è vero che i primi collettivi anticiparono le grandi mobilitazioni studentesche, è vero anche che il movimento studentesco per molte donne rappresentò l'inizio e il luogo privilegiato di una riflessione sui rapporti di potere tra i sessi che le avrebbe poi condotte al femminismo. Nella rivolta degli studenti esse ravvisarono, da un lato, la propria condizione di subalternità rispetto all’uomo e, dall’altro, la necessità di cambiare i rapporti fra i sessi. La presa di coscienza così definita si tradusse nella separazione dei collettivi femministi dal resto del movimento. Le donne espressero così l’esigenza di riunirsi tra di loro per sovvertire quello che agli inizi degli anni Settanta era il perno della struttura su cui poggiava l’intera società: visto che il valore di una donna si definiva in relazione ad un uomo, era necessario dare valore alla donna tra le donne.
Il movimento delle donne è l’ultimo movimento politico in ordine temporale a diventare visibile sulla scena politica e sociale, ma quello destinato a lasciare sul lungo periodo maggiormente il segno nella società, nei comportamenti, nei costumi, nelle mentalità, nel modo di relazionarsi tra le persone.
La genesi del neofemminismo italiano si colloca molto precocemente nel 1965, anno in cui nasce il gruppo Demau - Demistificazione autoritarismo divenuto poi Demistificazione autoritarismo patriarcale, un gruppo promosso da donne a cui partecipano anche alcuni uomini.
Ma è a partire dal 1970 che si assiste, in tutta Italia, ad una vera e propria fioritura di gruppi e collettivi di sole donne molto diversi tra loro, soprattutto per quanto riguarda i riferimenti culturali ed ideologici cui si rifacevano.
Quando nel 1970 fu diffuso il Manifesto di “Rivolta femminile”, si avviò un meccanismo per il quale si pensò di poter partire dal punto più lontano della politica, il corpo e la sessualità, e mettere in discussione tutto l’impianto su cui poggiava la civiltà, con le sue istituzioni e i suoi saperi. Attraverso la riflessione di Carla Lonzi, e le tante altre che contribuirono al dibattito collettivo, il femminismo riuscì nel tentativo di immettere qualcosa di nuovo sulla scena politica: il “partire da sé” da tema politico divenne modo di fare politica.
Da subito le donne iniziano ad occupare pubblicamente lo spazio con il proprio corpo. Nel 1971, il collettivo Lotta femminista di Roma, chiamò le donne a scendere in piazza in occasione della Giornata internazionale per l’abrogazione delle leggi proibitive dell’aborto. Negli incontri serali e clandestini delle femministe maturò l’organizzazione della manifestazione dell’8 marzo 1972 (Roma, Campo dei Fiori). Pur non essendo stata autorizzata, il passaparola delle donne condusse in piazza circa 20.000 persone. A manifestare vi erano donne nate in prevalenza negli anni Quaranta, non chiedevano genericamente diritti, chiedevano specificamente diritti per sé, avendo “deciso di essere sesso che valeva tanto quanto” per usare un’espressione di Edda Billi (Casa internazionale delle donne, Roma).
La presa di parola, prevalente in una prima fase, si accompagnò, quasi immediatamente, ad un’altra pratica, quella della scoperta e della conoscenza concreta del proprio corpo, attraverso il dialogo e il confronto con le altre donne.
Nel volgere di pochissimi anni l’effetto dell’apparizione di questa nuova soggettività femminile fu dirompente e capillare.
Il femminismo ebbe una grande diffusione coinvolgendo, attraverso occasioni e incontri, molte donne provenienti da storie differenti. L’occasione poteva essere data dal gruppo più ristretto che si misurava con l’autocoscienza, dall’avvicinamento ai luoghi in cui gruppi e collettivi si incontravano, dall’incrocio tra vicende personali che in un diverso tempo storico sarebbero rimaste confinate negli aspetti più privati e intimi della vita di ciascuna, con invece una cultura diffusa che portava a riflettere su di esse insieme ad altre: dai rapporti d’amore alla sessualità, alla scelta della maternità , al nodo doloroso e difficile dell’aborto, allora clandestino.
Le donne, in quanto soggetto politico, entrarono prepotentemente sulla scena pubblica, costruirono spazi d’incontro, diedero vita a gruppi teatrali, radio libere, case editrici, consultori autogestiti e in tante, singolarmente e insieme, cambiarono i ritmi e le scansioni della vita quotidiana, inventando nuove forme di socialità femminile. 


Gli anni di massima visibilità, quelli che vanno dal ‘74 al ‘77, furono contemporaneamente quelli delle prime crisi dei gruppi di autocoscienza, di allontanamenti e di nuovi differenti inizi.
Emergevano sempre più nettamente le differenze interne ai gruppi di donne e si faceva sempre più evidente, anche nello spazio pubblico, l'impossibilità di una tanto ideale quanto impossibile sorellanza fondante le relazioni e le azioni delle donne.
Il tema dell'aborto conduce a un dibattito serrato, aspro e intenso sia a livello pubblico che privato. E’ proprio l’aborto uno dei temi su cui si misurerà la crisi del femminismo degli anni Settanta.
La discussione sull'aborto può essere definita una causa interna di messa in crisi del femminismo, le cause esterne possono essere individuate negli spazi tolti dal terrorismo ai movimenti, che ne furono uccisi e al femminismo in particolare, anche se fu l'unico a sopravvivere.
Molti definirono "colpevole" il silenzio delle femministe sul terrorismo, un silenzio che silenzio non era, ma che veniva riempito di senso da molte militanti.
Una esperienza importante, che nasce proprio in quegli anni, è quella della Libreria delle Donne (Milano, 1975): uno spazio di relazione tra donne che segnava tangibilmente la presenza nella sfera pubblica di un'esperienza differente. Fu quello il primo nucleo dal quale partì la riflessione e la diffusione del pensiero della differenza sessuale.
La tempestiva traduzione di Speculum da parte di Luisa Muraro (uscito in Francia nel 1974 e in Italia nel 1975) e la rapida diffusione del libro costituirono un punto di riferimento per l’elaborazione di pensieri e teorie che ponevano al centro la differenza dell’essere donna e dell’esperienza femminile.
Un pensiero che, a partire dalla decostruzione del discorso freudiano sulla sessualità femminile, superava la categoria dell’oppressione e poneva in campo un soggetto altro, rompendo con l’universalità del soggetto maschile e del suo linguaggio.
Il pensiero della differenza si radicherà profondamente nel femminismo Italiano e assumerà, a partire dagli anni ‘80, una posizione dominante nella percezione e rappresentazione del femminismo. Dato, questo, che mette in evidenza sin da subito le questioni relative a trasmissione, memoria, eredità. Le elaborazioni femministe che hanno prevalso negli anni ‘80 e ‘90, legate all’impostazione filosofica del pensiero della differenza, che comportava implicitamente un rifiuto della storia, hanno costruito e trasmesso una visione paradossale per cui proprio il femminismo italiano, che aveva avuto un carattere di massa superiore a quello di ogni altro paese, è stato rappresentato come un percorso teorico di piccoli gruppi o di singole pensatrici, sia pure grandi (Carla Lonzi su tutte).

Il lascito di leggi seguito alla spinta femminista degli anni Settanta è notevole. In generale, possiamo affermare che il neofemminismo si disinteressa completamente dell’elaborazione e approvazione di leggi molto avanzate che, però, sono senza dubbio dirette conseguenze delle sue battaglie, quindi possono a tutti gli effetti essere definite sue conquiste: 1968, la Corte costituzionale dichiara incostituzionale la disuguaglianza dei sessi nella punizione dell’adulterio e le norme sul concubinato; 1970 è approvata la legge sullo scioglimento del matrimonio; 1974 al referendum abrogativo del divorzio il 58% vota per il mantenimento della legge; 1975 sono approvate le leggi di riforma del diritto di famiglia che sanziona la parità dei coniugi e d’istituzione dei consultori familiari; 1977 è approvata le legge sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro; 1978 è approvata la legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza; 1981 è approvata la legge che abroga la rilevanza penale della causa d’onore come attenuante nei delitti. Gli opposti referendum abrogativi della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, uno radicale, gli altri proposti dal Movimento per la vita vengono respinti nella consultazione popolare; 1984 è istituita la Commissione nazionale per la realizzazione della parità e delle pari opportunità fra uomo e donna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; 1991 è approvata la legge 125 sulle azioni positive per la realizzazione delle pari opportunità nel campo del lavoro; 1996 è approvata la legge contro la violenza sessuale, che da reato contro la morale diventa reato contro la persona.

Negli anni Ottanta e Novanta - oltre al già citato radicarsi del pensiero della differenza e all’avanzamento dal punto di vista legislativo - il femminismo italiano si allontana dalla piazze per entrare nei luoghi istituzionali: l’università e la ricerca accademica; la politica e le pari opportunità.
Importantissimi, in questi decenni, i luoghi delle donne e l’elaborazione teorico/politica dei piccoli gruppi, simboli schizofrenici di un forte radicamento in ambito strettamente locale e di una propensione all’apertura all’ambito internazionale. Nella maggior parte dei casi, questi luoghi e questi piccoli gruppi, figli (e la parola non è casuale) delle femministe degli anni ‘70, per un istinto di protezione e difesa della propria produzione non hanno saputo comunicare con le nuove generazioni di femministe, spesso escludendole di fatto o relegandole al ruolo di “giovani” nell’eterna posizione di discenti.

La generazione di femministe nate tra gli anni settanta e gli anni novanta è una generazione di donne che non volevano simbolicamente uccidere le proprie madri, ma che si sono comunque trovate orfane di una storia che esse stesse hanno dovuto ricostruire, ma questa è un’altra storia.

*qui, qui e qui

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