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9 maggio 2013

Le donne libere/liberate e l'ordine maschile della società


Su questa finestra ultimamente è calata una spessa tenda di silenzio. Pesante, non fa passare l'aria e scherma fastidiosamente la luce.
Faccio molta fatica a prendere parola ... quello che mi accade intorno - dalla politica alla violenza sociale diffusa, alla grossolana verbosità che non ci da tregua a lavoro come per strada - accartoccia anche la più piccola velina di speranza. Eppure ci sono eventi che spingono a parlare anche se comprendo la sterilità del gesto.
Come se non bastassero i continui attacchi all'individualità femminile, all'autoderminazione delle donne, oggi si aggiungono nuovi e meschini insulti.
Le donne senza figli sono persone che non si assumono le proprie responsabilità e che non vogliono crescere. Questo più o meno ha detto il papa nella giornata dedicata alla figura della madre (tale nella coppia eterosessuale). Inoltre, se si è tanto irresponsabili da non avere figli e indossare i tacchi e magari il rossetto, e perchè no una canotta ora che viene estate, beh essere aggredite, per strada o in casa o sull'autobus, picchiate, violentate, sfigurate, uccise -  è cosa normale. E' cosa tanto normale da non dovere essere neanche discussa pubblicamente. E' certo non lo possiamo fare noi!
Una campagna di civiltà per il rispetto del corpo delle donne e non solo delle donne, ma anche di quello delle bambine e dei bambini, non è una nostra battaglia sorelle.
E' una battaglia tutta dei maschi, ma evidentemente sono troppo vigliacchi per poterla fare ad alta voce.
MGrazia

13 febbraio 2013

Attorno alle retoriche della cura e del materno



Una certa retorica della cura e del materno entrano con facilità nella strumentazione che si appronta quando si vuole rispondere alla domanda ma allora, in che cosa sono diverse le pratiche economiche segnate dalla differenza femminile?
Come dovrebbe essere ormai chiaro, sono affascinata dalla possibilità di mettere in relazione la critica  all’insostenibilità fondamentale dell’attuale sistema economico  - socialmente disastroso, dissipatore di risorse ormai all’esaurimento, potenzialmente in grado di compromettere l’ambiente che ha reso possibile la sopravvivenza sin qui della specie umana - e pensiero femminista. Lo sono perché penso che l'economia non sia l’astratto gioco scambio tra inesistenti monadi neutre razionali e assolutamente intercambiabili tra loro (ed esclusivamente orientate a ottenere il massimo profitto con il minimo sforzo)  ma piuttosto  l'insieme delle pratiche, delle norme e delle relazioni con cui riproduciamo le condizioni materiali della nostra esistenza su questo pianeta. Un insieme di pratiche, norme, relazioni calato nella nostra contingenza di esseri sessuati, sociali, dipendenti da una quantità e qualità variabile di relazioni emotive, fisiche, affettive dalle quali non possiamo prescindere. Nello stesso modo, l’economia, dunque,  non può prescindere dal nodo di come sono costruite le relazioni fra i generi.
nido
Relazione imprescindibile e necessaria alla nostra venuta al mondo è un utero di donna che ci ospiti e partorisca:  noi non possiamo esistere senza di esso, senza una mediazione materna. E’ una condizione di dipendenza e diseguaglianza, di relazione e legame che ci segna e caratterizza tutti e tutte – qualunque sia la nostra traiettoria successiva. In questo senso dichiara la nostra natura umana come cosa profondamente diversa dalla anomia discreta di esseri neutri, interscambiabili, perfettamente pari l’uno all’altro che l’economia classica pone alla base delle sue speculazioni. Quegli esseri, come argomenta molto bene David Graeber, possono funzionare molto bene come proiezioni matematiche, ma semplicemente non esistono. Le persone reali non esistono se non per via del fittissimo, inestricabile intreccio di rapporti che le mette letteralmente al mondo: rapporti fisici, simbolici, morali – economici; ed è qui a mio parere la cifra del materno, non tanto in un suo esercizio oblativo e illimitato volto a sanare i guasti del mondo, quanto nel suo metterci sempre e di nuovo di fronte al tratto fondamentale della nostra condizione umana.

Insistere fortemente sul ruolo delle donne in alcune società tradizionali o di zone particolarmente sfruttate e degradate del pianeta come chiave per esperienze di economia comunitaria, alternativa ed equa no è sbagliato, intendiamoci. Questo tipo di esperienze, spesso straordinariamente interessanti da cui abbiamo molto imparato e molto abbiamo da imparare, sono senz’altro decisive per i contesti in cui hanno vita e anche per avviare una trasformazione profonda nei nostri contesti economici e sociali. A mio parere il rischio è piuttosto quello di comunicale con un linguaggi e metafore che tendono a sovrapporre, senza troppo approfondire, il piano dell'esperienza storica femminile e quello di una vocazione “naturale” alla cura e alla riparazione. Di scivolare quindi dalla strumentazione necessaria a mutare relazioni sociali e rapporti di forza, a riorientare la pratica economica e dalle concrete condizioni in cui questo si realizza in altre parti del mondo  -  e in cui potrebbe essere realizzata qui a quello della costruzione di un mito di salvezza, che, alla ricerca affannosa di una via d’uscita dalla tragedia del presente, prenda la scorciatoia di un’identità femminile per definizione buona e non violenta, inchiodando contemporaneamente però le donne ad una eterna maternità sociale e alla cura del mondo non in quando esseri umani dotati della capacità di scegliere ma in quanto segnate da un destino “naturale”.

Con questo, ripeto, non disprezzo l’enorme potenziale della cura come pratica economica, e come pratica economia alternativa allo scambio proprietario; tutt’altro. Neppure tantomeno disprezzo l’esperienza storica femminile, risorsa preziosa e imprescindibile per ripensare l’umano e il suo stare al mondo. Rifiuto soltanto che possa esserci qualcosa che decida per noi, ogni singolo o singola ricrea e rifa il mondo nei suoi significati, nei ruoli, nelle identità di genere, ogni istante. Non lo fa nel vuoto: lo fa nella fitta trama di dipendenze che lo definisce e sostiene; ma in questo è sol*, sì, né il divino né la natura divinizzata e idealizzata lo fanno per lui/lei. Così come la natura umana è definita dalla sua relazione fondamentale con altri esseri umani, la condizione umana è anche una condizione di solitudine ontologica, una solitudine che presuppone sempre, che lo vogliamo o no, l’esercizio della scelta.

Le condizioni, l’esperienza e le pratiche della riproduzione umana non sono quindi importanti in quanto la maternità ha una funzione sociale nel senso di compiere un atto “utile” alla società. In senso strettamente biologico non ha senso: la trasmissione genetica avviene da individuo a individuo e non esiste un interesse di specie. Si insiste sull’interesse della specie perché anche ad essa, alla cooperazione umana e animale all’interno della stessa specie si vogliono attribuire, con la cogente necessità del dato di natura, le motivazioni egoistiche che si attribuiscono agli individui monadi nei loro scambi economici astratti.  Essere venuti al mondo, ed essere venuti al mondo da un corpo di donna è presupposto di qualunque socialità umana. In questo le donne non fanno l’interesse di nessuno – potremmo discutere se fanno quello dei propri geni, ma qui non ci importa. Quello che qui è importante è assumere finalmente a pieno titolo che il mondo è popolato da (minimo – non mi è possibile aprire ora la discussione sulle identità sessuali plurime) due sessi e generi che hanno, rispetto alla riproduzione umana, fisiologia, esperienze, vissuti ed esigenze diverse. Che in un precario equilibrio segnato costitutivamente da queste diverse esperienze e quindi dal conflitto riproducono istante per istante le condizioni della propria esistenza. Così come non esiste l’armonia della natura – è un mito che descrive con falsa coscienza una condizione temporanea fluttuante e precaria segnata dal dolore, dalla perdita e dalla morte tanto quanto dalla abbondanza e dal benessere, non esiste l’armonia tra i sessi.
La vera durezza dell’essere umani è che non esiste nessun cammino segnato. Possiamo scegliere, dobbiamo scegliere se impostare tra noi relazioni pacifiche e libere, cooperative e accoglienti o gerarchiche e violente, se interrogarci sul significato della giustizia e dell’uguaglianza o esercitare ciecamente il potere quando ne abbiamo la possibilità, se vogliamo essere egoisti e predatori o generosi e in ascolto. Sta soltanto a noi.

Paola

14 marzo 2012

Elisabeth Badinter torna su L'amour en plus

An interview with Elisabeth Badinter : the maternal love is an “Amour en plus”. Again

Donne e materno (ruolo, istinto, destino storico): una discussione infinita e intrigante, a volte frustrante nella sua ripetitiva superficialità, altre volte capace di toccare corde umanissime nonché di autentico libero pensiero.
Oggi, la bella intervista di Anais Ginori a Elisabeth Badinther (via Lipperatura) ritorna su temi cari all’autrice in occasione della riedizione dell’ormai storico L’amour en plus e ci regala passaggi che confortano sul senso di continuare a riflettere e a scavare su temi così difficili, dove la semplificazione e il conformismo intellettuale rimangono più in agguato che mai:
“l’amore materno è soltanto un sentimento, e dunque è incerto, fragile, imperfetto. Non va dato per scontato: è in più”
E’ un fatto: le mamme “cattive”, l’eventuale forfait di questo sentimento così fragile e mutevole, nel tempo, nello spazio, nelle individue spaventa tantissimo, ognuno e ognuna di noi. Più che l’assenza o la cattiveria dei padri, quella delle madri è quasi per definizione mostruosa e inconcepibile. Quanti sforzi durissimi per far passare ad ogni costo la fallibile relazione con la propria prole per un istinto granitico e immutabile. Non è difficile, se riusciamo a far tacere per qualche istante i nostri fantasmi e le nostre nostalgie, intravedere al di sotto della fissità della rappresentazione non solo relazioni di potere e strutture sociali (patriarcali) ma anche il nostro umanissimo desiderio di essere consolati, da una madre buonissima, onnipotente e indefettibile, dall’ “insopportabile leggerezza dell’essere”, dalla perdita e dal lutto che assediano tutti noi. Solo che forse sarebbe ora che, appunto, fuori dall’infanzia anagrafica, uscissimo da quella simbolica, smettessimo di essere tutti figli/e a vita, ci prendessimo la responsabilità di portare, ciascuno come meglio può (auspicabilmente nell’empatia verso la totalità del vivente) il nostro guscio in porto, senza gravare di questo esito le spalle delle donne/mamme.
Curiosamente, una contraddizione ritorna legata all’indefettibile bontà materna: da una parte si vogliono tutte le madri dotate di potere salvifico, di bontà istintiva e infinita, senza misura; dall’altra si contesta duramente chi poi tenta di fondare su queste virtù, vere o presunte, storiche o naturali, potere e capacità femminili nella sfera pubblica. Operazione per la quale io non ho mai avuto grande simpatia; ma a volte mi viene da dire, visto i pulpiti da cui proviene la critica: cari signori (e signore), delle due l’una: o siamo comunque madri “buonissime” ( e allora perché non riconoscerci tout court questa virtù?) o non lo siamo. Ma allora non chiedeteci di essere tutte quante madonne, gridando allo scandalo quando qualcuna solleva il manto azzurro.
E’ un passaggio che interroga anche il femminismo, e anche quello più radicale. Vi lascio con un altro passaggio dell’intervista a Badinter, che io trovo per la verità discutibile, ma ugualmente stimolante
“… in qualche modo è passata l’idea che femminismo e maternità non fossero compatibili. Da questo equivoco è scaturito il femminismo della differenza, radicalmente opposto, che mette la maternità al centro della identità femminile”

Paola

28 aprile 2011

Vogliamo tutto, ma tutto è quello che vogliamo?

We want everything! But is everything what we really want?
Job, career, maternity for... Wonderwomen

A Bologna è tempo di elezioni. Qualche sera fa ascoltavo una giovane candidata di una lista di centrodestra raccontare che alla notizia della sua candidatura molte persone avevano osservato che, così facendo, “aveva scelto la carriera”. E che lei rifiutava questa opzione: “io voglio tutto”, diceva, figli, famiglia e carriera.
La giovane candidata era brillante e disponibile a mettersi in gioco in una sede storica del femminismo cittadino; non proprio il suo terreno, si intuiva. L'affermazione suonava come una conferma di tante parole d'ordine del femminismo, passato e presente, e per questo e per la sua spontaneità è stata immediatamente circondata da una corrente di simpatia. Che non voglio mettere in discussione, sarebbe davvero ingeneroso.
E' al femminismo che, ancora una volta, è giusto porre la questione, perché il femminismo ci ha insegnato una pratica di vigile coscienza e autocoscienza, individuale e di gruppo. Vogliamo tutto è uno slogan straordinario nella sua parte che allude al rifiuto consapevole della scissione tra pubblico e privato, tra razionalità e affettività, tra corpo e mente che è una delle pratiche più violente e pervasive della disciplina maschile dei generi e delle donne travestita da neutro universale. Vogliamo tutto è uno slogan ambiguo nel suo alludere ad un modello di onnipotenza e perfezione femminile con cui ci tengono in scacco nelle nostre vite concrete e quotidiane, nelle faccende di tutto i giorni. Non si può avere tutto – e non si tratta solo di arrendevole conformismo e vigliaccheria travestita da saggezza. Sarebbe ora che noi donne e femministe ci interrogassimo con più onestà sulla forma che la complicità femminile prende quando si manifesta come desiderio/aspirazione alla capacità di tenere miracolosamente insieme tutto. Non solo perché questo fa pagare a noi stesse un prezzo altissimo, che ben conosciamo e che è tutto interamente e solo nostro. I limiti esistono: va ammesso che la cura è spesso un lavoro spossante, totalizzante, faticoso, non sempre creativo e gioioso, che può escludere o limitare fortemente l'impegno in altre sfere della vita. Non ammetterlo, non riconoscerlo e riconoscerselo rovescia interamente su noi wonderwomen e sulle nostre straordinarie doti individuali quello che è un compito squisitamente sociale: costruire una mondo basato su relazioni sociali e di genere in cui, mentre si riconosce l'altro valore della cura, non lo si attribuisce solo alle donne o ai “servizi” ad esse dedicati (presto tagliati come un lusso incomprensibile alle prime difficoltà, se non si fa questo passaggio); e sarebbe a mio parere una società in cui per forza il pil, il denaro e l'accumulazione di ricchezza verrebbero perlomeno fortemente ridimensionati come esclusivi compiti umani.
Nella megamacchina del turbocapitalismo(di cui le donne, come dice bene Picchio, sono gli invisibili servo-meccanismi) per la cura, per i figli (o gli anziani, o i malati) non ci può essere davvero posto. Siamo bravissime, è vero, simpatica candidata: ma è ora di dire agli uomini che noi non possiamo fare tutto, e che se non vogliamo tutto, almeno sappiamo tutto quello che vogliamo.

Paola

18 marzo 2011

lavoro come liberazione

Women at work or rather "elevate me later".

Lo scorso 20 gennaio Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, è intervenuta ad un incontro pubblico organizzato dall'associazione Orlando presso il Centro di documentazione ricerca e iniziativa delle donne di Bologna. Argomento della conversazione: Vivere il lavoro nel tempo della crisi. Donne e uomini tra necessità dignità e libertà.
L’incontro ha trovato il suo perno e punto di maggiore criticità in una delle prime osservazioni del segretario ovvero il limite del movimento femminista, la cui pratica ed elaborazione si è arrestata sulla soglia del lavoro.
Il lavoro nell’accezione tradizionale “nobilita l’uomo” e, per quelle come me, che per ragioni anagrafiche non hanno partecipato delle iniziative femministe pur avendone introiettato la capacità di riflettere sul sé-soggetto, rende libere le donne. Questa convinzione, il lavoro rende libere, è rimasta tale per molte trenta-quarantenni fino a quando non siamo entrate a nostra volta nel mondo del lavoro. È bastato veramente poco per rendersi conto che il lavoro come libertà è una mera utopia e non certo un’utopia “buona” che in quanto tale tiene vivo il desiderio per qualcosa di meglio (Cfr. Susanna Camusso, Lavoro, in Parola di donna, Milano 2011, p.153-155).
Ci hanno chiamato “nuove identità di lavoro” con buona pace della Cgil stessa, che si è voluta far carico di questa classificazione, senza la quale il lavoro atipico sarebbe rimasto popolato di entità metafisiche anziché di soggetti fatti di corpo, bisogni, desideri, aspirazioni. Le nuove identità hanno una conformazione variegata, tra queste molte sono le donne e, soprattutto, le giovani donne: coloro che a differenza delle loro madri hanno proseguito gli studi ben oltre la terza media o il diploma. Schiere di laureate, a volte con più lauree e percorsi post-laurea alle spalle. Una folla di persone specializzate a tal punto da non trovare, in un mercato del lavoro contratto dalla crisi delle collocazioni adeguate. Si badi, collocazioni adeguate e non certo il lavoro per il quale ci si è preparate studiando. Nella migliore delle ipotesi si accede a un lavoro poco qualificato, per il quale si producono curricula ad hoc per nascondere i propri titoli, poiché i titoli di studio costituiscono un demerito e non un merito nel mondo del lavoro: “come? Ma tu hai finito ora di studiare? Non hai mai lavorato prima? Cerchiamo una persona con esperienza!”
Eventi recenti mostrano un mutamento di questo stato di cose, visto che il possesso di una laurea, seppure breve, sembra faciliti l’accesso a posti di pubblico impiego molto ben pagati. Tuttavia sbirciando negli uffici pubblici si scoprono realtà ben diverse. Ad esempio che la maggioranza delle lavoratrici giovani laureate è lì in qualità di stagista non retribuita o con contratti variamente declinati: a progetto/collaborazione/tempo determinato. Le altre, le regolari, percepiscono a parità di lavoro uno stipendio inferiore a quello del collega maschio e a parità di titoli sono inquadrate a livelli più bassi. Del resto, sono madri reali o potenziali e non capifamiglia.
Maternità, dunque. Perché maternità e lavoro femminile sono le due facce della stessa medaglia. Molte lavoratrici l’hanno potuta scegliere la maternità e forse per molte di loro ha rappresentato una realizzazione più soddisfacente di quella che avrebbero potuto raggiungere nel lavoro. Per le più giovani, invece, quelle per cui il lavoro avrebbe dovuto essere il luogo della liberazione dal bisogno e dell’autodeterminazione, rappresentando la possibilità di vivere la propria vita perseguendo obiettivi scelti, pensati, progettati, per loro/per noi l’utopia del lavoro si risolve in un triste ed iniquo compromesso al ribasso. Il lavoro per quanto poco qualificato, precario e sottopagato è meglio di niente e il privato, anche la maternità, finisce con l’essere posto sull’altro piatto della bilancia e, nella maggior parte dei casi, eliminato dal computo degli obiettivi possibili.
La presa d’atto di tale situazione risulta insufficiente.
Non basta asserire che il lavoro femminile è scarsamente valutato, in qualunque ambito esso venga esercitato; non basta ricordare che il lavoro delle donne è classificato come un qualcosa di aggiuntivo e integrativo all’economia della famiglia, alla quale per altro le donne partecipano già attivamente con il quotidiano lavoro di cura; non basta dichiarare che il lavoro si svolge secondo modalità che ripropongono un modello di organizzazione sociale maschile.
Il fatto è che esiste un vuoto di riconoscimento che coincide con un vuoto di diritti da colmare con norme adeguate. A questo punto rimane una domanda: per sensibilizzare il legislatore le donne devono continuare a delegare?

MGrazia