27 gennaio 2012

Essere memoria, tessere memoria. La deportazione femminile nei Lager nazisti

Se, in generale, i silenzi, nella storia delle donne, sono molto rumorosi, ciò vale a maggior ragione per le deportate: accanto alle donne che hanno scelto volontariamente di tacere per riuscire a dimenticare, e a quelle che, al contrario, hanno assunto in pieno il dovere della testimonianza, ce ne sono altre a cui il silenzio é stato imposto, ma che hanno comunque sentito il bisogno di scrivere, di lasciare una traccia di ciò che avevano vissuto, anche solo per se stesse.
Ho iniziato così una ricerca d’archivio che mi ha portato a ritrovare più di trenta memorie inedite di deportate dall’Italia. 
E' indubbio, e sembra quasi superfluo sottolinearlo, che le memorie dei deportati sono fonti difficili da analizzare, proprio perché è difficile riuscire a prescindere dalla forte carica emotiva di ogni racconto per trattarlo con il giusto distacco che permette di ricostruire correttamente, criticamente dal punto di vista storico, le vicende narrate. 
Ma questo dato di fatto non può diventare, per uno studioso, l'alibi per sottrarsi all'analisi, farlo significa perpetuare un torto sia nei confronti di chi ha scelto di testimoniare, sia nei confronti di chi ha scelto, o è stato ridotto al silenzio. 
Utilizzare le memorie come fonti non significa violarle, snaturare l'unicità del racconto del singolo, significa al contrario, contestualizzare quel racconto e, dunque, valorizzarlo.

Dall'Italia all'Italia

Il momento dell'arresto, seppur drammatico e angosciante, non coglie quasi mai alla sprovvista chi aveva fatto una scelta antifascista e militava nelle formazioni partigiane: questo spiega il tono pacato e minuzioso con cui viene ricostruita, nella maggior parte delle testimonianze, questa esperienza.
Diversa, è la situazione di chi viene arrestata per motivi che non vanno fatti risalire alla militanza politica antifascista: i mezzi morali e materiali di chi affronta la prigionia perché di religione ebraica non possono essere paragonati a quelli dei resistenti. Una differenza che si riflette anche nel modo in cui è stata successivamente elaborata e comunicata la propria esperienza, tanto che troviamo, in questa fase, molti più elementi comuni tra le memorie: l'affresco della propria vita prima delle leggi razziali, il brevissimo racconto dell'arresto, spesso solo accennato, la tendenza ad iniziare il racconto dal momento dell'arrivo nel campo.
Mi preme sottolineare la necessità di sfuggire il rischio di considerare un unicum indistinto i deportati per motivi razziali, senza, ad esempio, tener conto della diversità in termini di osservanza religiosa: non saranno rari i casi di chi si “scoprirà” ebreo solo al momento dell'arresto
Così come per l'antifascismo, anche nella questione della deportazione ebraica occorre uscire dagli stereotipi e considerare le sfaccettature che vi sono al suo interno.
L'arresto spesso avviene in gruppo, con i propri congiunti, i figli, i genitori, cosa che aggiunge ulteriore drammaticità al momento, perché si vede la propria sorte riflessa nella sorte delle persone più vicine e ci si ritrova subito, probabilmente prima di quanto non avvenisse ai deportati per motivi politici, consapevoli della propria impotenza di fronte agli avvenimenti.
La prigionia può prolungarsi anche per dei mesi: mesi d'incertezza e di paura.
Le prigioniere politiche vengono torturate affinché confessino la loro complicità con gli antifascisti e rivelino i nomi dei loro compagni, spesso è impedita loro ogni comunicazione con l'esterno, ma anche i contatti tra reclusi sono vietati e avvengono clandestinamente, in questo non ci sono differenze tra uomini e donne.
Per le ebree, nella maggior parte dei casi, la prigionia dura molto di meno, è per questo motivo che in genere, nella memorialistica, il suo racconto non occupa un lungo spazio.
E' uno stato di continua attesa della propria sorte, di paura per le torture, di smarrimento per l'incertezza.
Girano "voci" di un possibile trasferimento in Germania, ma a nessuno è dato sapere cosa ciò significhi realmente o quando accadrà.
La tradotta può essere considerata un "prologo" del Lager: la mancanza d'acqua, di viveri, di servizi igienici all'interno dei vagoni sono i primi segni dell'indifferenza mostrata dai nazisti nei confronti della dignità umana dei prigionieri .
Nel trasporto le differenze tra i prigionieri si assottigliano, uomini e donne, ebrei e politici, vivono questa fase di passaggio condividendo le stesse incertezze e gli stessi dolori.
All'arrivo, la realtà del Lager si impone prepotentemente: quello che la fantasia non può immaginare, quello che la mente non riesce a decifrare si imprime nella retina come una realtà che precede la comprensione. Gli anni che passano non cancellano il ricordo di quel momento che resta impresso nella memoria, scandito dagli scenari che si presentano alle prigioniere.
La sensazione di essere estranee a quel mondo non dura a lungo.
Le prigioniere vengono fatte spogliare completamente, devono consegnare ogni loro avere ad un'impiegata che registra meticolosamente tutto su un foglio, promessa vana di una restituzione che non avverrà mai.
Il cerimoniale della privazione dei vestiti e di tutti gli averi ha un forte valore simbolico. Questo affronto al pudore, doloroso per tutti, assume per una donna un significato ancora più profondo.
Le donne vivono una sofferenza specifica che è diversa da quella maschile, è la sofferenza di dover esporre i propri corpi nudi agli sguardi degli uomini, mentre erano state educate ad un costume di profonda riservatezza e pudicizia, è la sofferenza di dover vedere i corpi delle altre donne, anche delle più anziane, abituate ad un pudore ancor più rigoroso.
Immediatamente le prigioniere vengono catapultate nella vita del campo, con le sue regole apparentemente incomprensibili eppure ferree e strutturate.
Diverse testimonianze ricordano che Arbeit - lavoro, è  una delle prime parole tedesche apprese all'interno del campo (naturalmente dopo il proprio numero, identità ormai sostituita a quella anagrafica, conoscenza necessaria ai fini della sopravvivenza).
Le condizioni lavorative all'interno delle fabbriche sono assai dure, le deportate sono costrette a fare turni continuativi di 11/12 ore, interrotti soltanto da una pausa di un quarto d'ora, ritmi eccessivi anche in normali condizioni di vita, ma insostenibili per i loro fisici debilitati.
I tempi del lager si insinuano nel corpo mutandolo profondamente: il deperimento, la perdita delle mestruazioni, le piaghe dell'avitaminosi, i pidocchi, i segni delle scudisciate, la caduta dei denti, i dolori alle ossa, il fisico subisce una repentina e costante trasformazione.
Non è casuale che siano proprio le donne a scegliere come termine di paragone e strumento di analisi il proprio corpo.
La complessità del vissuto femminile e del corpo delle donne è stata spesso messa in ombra, ciò ha fatto sì che da un lato l'esperienza comune della prigionia venisse filtrata quasi esclusivamente dalle parole dei reduci uomini; dall'altro ha avvalorato quei pregiudizi che vogliono la donna o come vittima sacrificale, madre immolata, o come oggetto di violenza e sfruttamento sessuale.
Questi due estremi vengono sclerotizzati nell'immaginario spazzando via ogni complessità e sfaccettatura.
Nel corpo femminile si incarnano i pregiudizi e i luoghi comuni del tempo di cui parliamo, ossia gli anni 30-40, e di tutti i tempi.
Gli ultimi mesi di prigionia sono forse i più difficili.
Nelle testimonianze rese dalle reduci si colgono tutte le difficoltà vissute in quel periodo d'incertezza.
Gli alleati, i liberatori, non hanno ancora un volto, sono annunciati dal rumore degli aerei, delle bombe, delle mitragliatrici.
Moltissimi prigionieri sono trasferiti verso quei campi che ancora non sono stati toccati dalle operazioni militari, migliaia muoiono durante le selezioni che precedono la partenza, molti altri perdono la vita durante le lunghe marce a causa della fame, della fatica, del freddo, o uccisi dalle SS quando sono troppo stanchi per andare avanti
Come la prima immagine del campo è impossibile da dimenticare, così anche i ricordi legati agli ultimi momenti di permanenza in Lager sono indelebilmente fissi nella memoria di chi è ritornato.
Il momento in cui si lascia il campo, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, è un momento difficile, è come se la libertà fosse una facoltà a cui le prigioniere si devono riabituare.   
Tra la liberazione e il ritorno a casa c'è uno scarto temporale molto lungo. Per la maggior parte degli italiani il rimpatrio inizia dopo mesi. Ultimi ad arrivare nei campi, sono anche gli ultimi a partirne. Il viaggio di ritorno verso casa si trasforma in una lunga odissea: i deportati sono spesso costretti a vivere in uno stato di semilibertà, sotto l'egida delle forze alleate che si occupano del rimpatrio.
Tutti i sopravvissuti, sia gli uomini che le donne, devono fare i conti, non appena tornati in Italia, con la scarsa disponibilità degli altri ad ascoltare, con l'incredulità, con gli sguardi distratti di chi ritiene che quei racconti siano delle esagerazioni e che in fondo tutti, durante gli anni della guerra, sono stati male, hanno rischiato di morire o hanno sofferto la fame.
Sulle donne, però, sui loro racconti o sui loro silenzi, aleggiano curiosità morbose, sospetti, strane teorie. E' un fatto comune quello di associare la prigionia femminile allo stupro, e spesso l'interesse dimostrato dagli interlocutori nasce da una sincera preoccupazione, è, però, inaccettabile che le sopravvissute debbano fare i conti con i sospetti di complicità nella violenza o di cedimenti di fronte alle proposte dei nazisti
Un particolare accanimento pare si manifesti contro le deportate politiche: le si biasima se hanno imbracciato un'arma, se hanno condiviso con uomini giovani, lontane da casa, la vita di una formazione partigiana, ma anche se hanno fatto una resistenza e un'opposizione disarmate, poiché in ogni modo, mescolandosi in affari di uomini quali guerra e politica, i guai sono andate a cercarseli.
Sono donne che hanno abiurato il dovere "naturale" della cura, invadendo un campo che è esclusivamente e specificamente maschile.
Anche l'impresa di risanare il corpo è vissuta in maniera differente rispetto agli uomini.
Per ottenere la pensione d'invalidità le deportate devono sostenere la visita negli ospedali militari, sono costrette a spogliarsi davanti ai soldati, rivivendo a casa l'umiliante esperienza subita nel campo. Per questo motivo molte rinunciano.
Alle donne, in sostanza, è stato chiesto di dimenticare ancor più in fretta che agli uomini, a loro si è chiesto di ritornare ad essere figlie, mogli, madri, come se i mesi di prigionia fossero una colpa su cui occorre stendere un velo.  
A causa delle difficoltà incontrate dopo il ritorno, molte biografie si concludono con la scelta del silenzio.
Un silenzio che è un'accusa nei confronti di chi non ha ascoltato, di chi non ha capito, di chi ha giudicato senza sapere.
Ciò non vuol dire, naturalmente, che le deportate abbiano smesso di raccontare, denuncia, al contrario, il peso di una memoria che voleva essere testimonianza per la storia, ma che ne è rimasta troppo a lungo ai margini, isolata.

Valentina

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