Se, in generale, i silenzi, nella storia delle donne, sono molto rumorosi, ciò vale a maggior ragione per le deportate: accanto alle donne che hanno scelto volontariamente di tacere per riuscire a dimenticare, e a quelle che, al contrario, hanno assunto in pieno il dovere della testimonianza, ce ne sono altre a cui il silenzio é stato imposto, ma che hanno comunque sentito il bisogno di scrivere, di lasciare una traccia di ciò che avevano vissuto, anche solo per se stesse.
Ho iniziato così una ricerca d’archivio che mi ha portato a ritrovare più di trenta memorie inedite di deportate dall’Italia.
E' indubbio, e sembra quasi superfluo sottolinearlo, che le memorie dei deportati sono fonti difficili da analizzare, proprio perché è difficile riuscire a prescindere dalla forte carica emotiva di ogni racconto per trattarlo con il giusto distacco che permette di ricostruire correttamente, criticamente dal punto di vista storico, le vicende narrate.
Ma questo dato di fatto non può diventare, per uno studioso, l'alibi per sottrarsi all'analisi, farlo significa perpetuare un torto sia nei confronti di chi ha scelto di testimoniare, sia nei confronti di chi ha scelto, o è stato ridotto al silenzio.
Utilizzare le memorie come fonti non significa violarle, snaturare l'unicità del racconto del singolo, significa al contrario, contestualizzare quel racconto e, dunque, valorizzarlo.
Dall'Italia all'Italia
Il momento dell'arresto, seppur
drammatico e angosciante, non coglie quasi mai alla sprovvista chi aveva fatto
una scelta antifascista e militava nelle formazioni partigiane: questo spiega
il tono pacato e minuzioso con cui viene ricostruita, nella maggior parte delle
testimonianze, questa esperienza.
Diversa, è la situazione di chi
viene arrestata per motivi che non vanno fatti risalire alla militanza politica
antifascista: i mezzi morali e materiali di chi affronta la prigionia perché di
religione ebraica non possono essere paragonati a quelli dei resistenti. Una
differenza che si riflette anche nel modo in cui è stata successivamente
elaborata e comunicata la propria esperienza, tanto che troviamo, in questa
fase, molti più elementi comuni tra le memorie: l'affresco della propria vita
prima delle leggi razziali, il brevissimo racconto dell'arresto, spesso solo
accennato, la tendenza ad iniziare il racconto dal momento dell'arrivo nel
campo.
Mi preme sottolineare la
necessità di sfuggire il rischio di considerare un unicum indistinto i deportati per motivi razziali, senza, ad
esempio, tener conto della diversità in termini di osservanza religiosa: non saranno
rari i casi di chi si “scoprirà” ebreo solo al momento dell'arresto
Così come per l'antifascismo,
anche nella questione della deportazione ebraica occorre uscire dagli stereotipi
e considerare le sfaccettature che vi sono al suo interno.
L'arresto spesso avviene in
gruppo, con i propri congiunti, i figli, i genitori, cosa che aggiunge ulteriore
drammaticità al momento, perché si vede la propria sorte riflessa nella sorte
delle persone più vicine e ci si ritrova subito, probabilmente prima di quanto
non avvenisse ai deportati per motivi politici, consapevoli della propria
impotenza di fronte agli avvenimenti.
La prigionia può prolungarsi
anche per dei mesi: mesi d'incertezza e di paura.
Le prigioniere politiche vengono
torturate affinché confessino la loro complicità con gli antifascisti e rivelino
i nomi dei loro compagni, spesso è impedita loro ogni comunicazione con
l'esterno, ma anche i contatti tra reclusi sono vietati e avvengono
clandestinamente, in questo non ci sono differenze tra uomini e donne.
Per le ebree, nella maggior parte
dei casi, la prigionia dura molto di meno, è per questo motivo che in genere,
nella memorialistica, il suo racconto non occupa un lungo spazio.
E' uno stato di continua attesa
della propria sorte, di paura per le torture, di smarrimento per l'incertezza.
Girano "voci" di un
possibile trasferimento in Germania, ma a nessuno è dato sapere cosa ciò significhi
realmente o quando accadrà.
La tradotta può essere
considerata un "prologo" del Lager: la mancanza d'acqua, di viveri,
di servizi igienici all'interno dei vagoni sono i primi segni dell'indifferenza
mostrata dai nazisti nei confronti della dignità umana dei prigionieri .
Nel trasporto le differenze tra i
prigionieri si assottigliano, uomini e donne, ebrei e politici, vivono questa
fase di passaggio condividendo le stesse incertezze e gli stessi dolori.
All'arrivo, la realtà del Lager
si impone prepotentemente: quello che la fantasia non può immaginare, quello
che la mente non riesce a decifrare si imprime nella retina come una realtà che
precede la comprensione. Gli anni che passano non cancellano il ricordo di quel
momento che resta impresso nella memoria, scandito dagli scenari che si
presentano alle prigioniere.
La sensazione di essere estranee
a quel mondo non dura a lungo.
Le prigioniere vengono fatte
spogliare completamente, devono consegnare ogni loro avere ad un'impiegata che
registra meticolosamente tutto su un foglio, promessa vana di una restituzione
che non avverrà mai.
Il cerimoniale della privazione
dei vestiti e di tutti gli averi ha un forte valore simbolico. Questo affronto
al pudore, doloroso per tutti, assume per una donna un significato ancora più
profondo.
Le donne vivono una sofferenza
specifica che è diversa da quella maschile, è la sofferenza di dover esporre i
propri corpi nudi agli sguardi degli uomini, mentre erano state educate ad un
costume di profonda riservatezza e pudicizia, è la sofferenza di dover vedere i
corpi delle altre donne, anche delle più anziane, abituate ad un pudore ancor
più rigoroso.
Immediatamente le prigioniere
vengono catapultate nella vita del campo, con le sue regole apparentemente
incomprensibili eppure ferree e strutturate.
Diverse testimonianze ricordano
che Arbeit - lavoro, è una delle
prime parole tedesche apprese all'interno del campo (naturalmente dopo il
proprio numero, identità ormai sostituita a quella anagrafica, conoscenza
necessaria ai fini della sopravvivenza).
Le condizioni lavorative
all'interno delle fabbriche sono assai dure, le deportate sono costrette a fare
turni continuativi di 11/12 ore, interrotti soltanto da una pausa di un quarto
d'ora, ritmi eccessivi anche in normali condizioni di vita, ma insostenibili
per i loro fisici debilitati.
I tempi del lager si insinuano nel corpo mutandolo profondamente:
il deperimento, la perdita delle mestruazioni, le piaghe dell'avitaminosi, i
pidocchi, i segni delle scudisciate, la caduta dei denti, i dolori alle ossa,
il fisico subisce una repentina e costante trasformazione.
Non è casuale che siano proprio
le donne a scegliere come termine di paragone e strumento di analisi il proprio
corpo.
La complessità del vissuto
femminile e del corpo delle donne è stata spesso messa in ombra, ciò ha fatto
sì che da un lato l'esperienza comune della prigionia venisse filtrata quasi
esclusivamente dalle parole dei reduci uomini; dall'altro ha avvalorato quei
pregiudizi che vogliono la donna o come vittima sacrificale, madre immolata, o
come oggetto di violenza e sfruttamento sessuale.
Questi due estremi vengono
sclerotizzati nell'immaginario spazzando via ogni complessità e sfaccettatura.
Nel corpo femminile si incarnano
i pregiudizi e i luoghi comuni del tempo di cui parliamo, ossia gli anni 30-40,
e di tutti i tempi.
Gli ultimi mesi di prigionia sono
forse i più difficili.
Nelle testimonianze rese dalle
reduci si colgono tutte le difficoltà vissute in quel periodo d'incertezza.
Gli alleati, i liberatori, non
hanno ancora un volto, sono annunciati dal rumore degli aerei, delle bombe,
delle mitragliatrici.
Moltissimi prigionieri sono
trasferiti verso quei campi che ancora non sono stati toccati dalle operazioni
militari, migliaia muoiono durante le selezioni che precedono la partenza,
molti altri perdono la vita durante le lunghe marce a causa della fame, della
fatica, del freddo, o uccisi dalle SS quando sono troppo stanchi per andare
avanti
Come la prima immagine del campo
è impossibile da dimenticare, così anche i ricordi legati agli ultimi momenti
di permanenza in Lager sono indelebilmente fissi nella memoria di chi è
ritornato.
Il momento in cui si lascia il
campo, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, è un momento difficile, è
come se la libertà fosse una facoltà a cui le prigioniere si devono riabituare.
Tra la liberazione e il ritorno a
casa c'è uno scarto temporale molto lungo. Per la maggior parte degli italiani
il rimpatrio inizia dopo mesi. Ultimi ad arrivare nei campi, sono anche gli
ultimi a partirne. Il viaggio di ritorno verso casa si trasforma in una lunga
odissea: i deportati sono spesso costretti a vivere in uno stato di semilibertà,
sotto l'egida delle forze alleate che si occupano del rimpatrio.
Tutti i sopravvissuti, sia gli
uomini che le donne, devono fare i conti, non appena tornati in Italia, con la
scarsa disponibilità degli altri ad ascoltare, con l'incredulità, con gli
sguardi distratti di chi ritiene che quei racconti siano delle esagerazioni e
che in fondo tutti, durante gli anni della guerra, sono stati male, hanno
rischiato di morire o hanno sofferto la fame.
Sulle donne, però, sui loro
racconti o sui loro silenzi, aleggiano curiosità morbose, sospetti, strane
teorie. E' un fatto comune quello di associare la prigionia femminile allo
stupro, e spesso l'interesse dimostrato dagli interlocutori nasce da una
sincera preoccupazione, è, però, inaccettabile che le sopravvissute debbano
fare i conti con i sospetti di complicità nella violenza o di cedimenti di
fronte alle proposte dei nazisti
Un particolare accanimento pare
si manifesti contro le deportate politiche: le si biasima se hanno imbracciato
un'arma, se hanno condiviso con uomini giovani, lontane da casa, la vita di una
formazione partigiana, ma anche se hanno fatto una resistenza e un'opposizione
disarmate, poiché in ogni modo, mescolandosi in affari di uomini quali guerra e
politica, i guai sono andate a cercarseli.
Sono donne che hanno abiurato il
dovere "naturale" della cura, invadendo un campo che è esclusivamente
e specificamente maschile.
Anche l'impresa di risanare il
corpo è vissuta in maniera differente rispetto agli uomini.
Per ottenere la pensione
d'invalidità le deportate devono sostenere la visita negli ospedali militari,
sono costrette a spogliarsi davanti ai soldati, rivivendo a casa l'umiliante
esperienza subita nel campo. Per questo motivo molte rinunciano.
Alle donne, in sostanza, è stato
chiesto di dimenticare ancor più in fretta che agli uomini, a loro si è chiesto
di ritornare ad essere figlie, mogli, madri, come se i mesi di prigionia
fossero una colpa su cui occorre stendere un velo.
A causa delle difficoltà
incontrate dopo il ritorno, molte biografie si concludono con la scelta del silenzio.
Un silenzio che è un'accusa nei
confronti di chi non ha ascoltato, di chi non ha capito, di chi ha giudicato
senza sapere.
Ciò non vuol dire, naturalmente,
che le deportate abbiano smesso di raccontare, denuncia, al contrario, il peso
di una memoria che voleva essere testimonianza per la storia, ma che ne è
rimasta troppo a lungo ai margini, isolata.
Valentina
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