A call for solidarity action against Omsa, a italian famous socks fashion company who's relocating production and laying off women workers
Nello sforzo sovrumano di emergere dal malsano torpore postnatalizio (in più soffro di stress postraumatico da manovra finanziaria) mi imbatto nella campagna di boicottaggio contro i licenziamenti alla Omsa di Faenza. Sono felice di vedere che questa vicenda, in cui le operaie stanno coraggiosamente lottando con ogni mezzo da più di due anni, approdata sul web non si è esaurita in una fiammata ma anzi conta su una lunga durata della solidarietà e della protesta via rete. I tempi non inducono certo all’ottimismo, comunque vada a finire si tratta di una cosa buona e di voci che popolano il deserto del dopo sbornia liberista (loro non se ne sono ancora accorti, ma l’happy hour è finito senza possibilità di ritorno!).
La vicenda è nota e non ve la racconteremo. Siccome però di mestiere ho sempre desiderato fare l’intellettuale, che come si sa è meglio che lavorare, alcuni spunti di dibattito attorno alla opportunità di proseguire e rilanciare la campagna di boicottaggio, che pare essere riuscita a colpire nel soldo cioè nelle vendite la famosa ditta, mi solleticano una riflessione più generale. Piccola e veloce, che oggi, proprio non posso fare di più.
C’è chi dice: se non compriamo più, Omsa va peggio e licenzierà altre lavoratrici o lavoratori, quindi volgiamola in positivo: se non licenzi ti compro. Trattasi di buona volontà e di un fine condivisibile (salvaguardare posti di lavoro) ma – dopo un annuncio di licenziamento operativo fra un mese, mi riesce difficile non pensare che dire “se non licenzi ti compro”non sia equivalente a dire “visto che licenzi, non ti compro”.
Ma quanta sociologia (buona e cattiva) non ci ha detto in questi anni che, tramontate le ideologie, la lotta di e la classe operaia tout court, trasformati tutti in consumatori, sarebbe stato attraverso i comportamenti di consumo, dall’autoproduzione al boicottaggio, che avremmo potuto far sentire la nostra voce e volontà? Ora però (ma non è cosa nuova: ricordo un appello di lavoratrici di fabbriche tessili indiane ai tempi di NoLogo che invitava a continuare a comprare i capi prodotti nelle fabbriche dove lavoravano per non rischiare di perdere quella che era divenuta per loro l’unica possibilità di sopravvivenza ) il meccanismo si inceppa, boicottare è scivoloso: e se facendolo peggioro la situazione?
Io sinceramente non ho soluzioni, forse la soluzione è continuare a provarle tutte, la lotta dura, quando si può, il boicottaggio, un cambiamento massivo di comportamenti accompagnato da una grande riconversione economico-produttiva come predica il buon Guido Viale: siamo tutti/e immersi nelle contraddizioni. Il succo è che dovunque ti volti, di libero nel mercato c’è solo il dominio di pochi, il resto è una gabbia che ci umilia, spoglia e disorienta.
In bocca al lupo, amiche della Omsa, per voi e per noi tutte.
Paola
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