Italian Prime Minister Monti blames people demanding for a permanent job
Caro professor Monti,
di tutte le cose nei confronti delle quali potrei mostrare sconcerto, e forte dissenso politico, ce n’è una che mi pare, forse a torto, la più sconcertante, perché di sapore così intriso da ancien régime da far venire la nausea: ovvero la separatezza – davvero castale, dico io che ho sempre detestato le scorciatoie populiste di ogni genere – tra chi ci governa e il “mondo reale”. Avevamo un premier che si difendeva penosamente dalla realtà personale del suo decadimento e da quella sociale del mondo che lo circondava immergendosi in una corte ridicolmente orgiastica che, tralasciandone il significato rispetto alle relazioni fra uomini e donne, sesso e potere – suonava come uno smodato sberleffo a chi la vita se la deve guadagnare in mezzo a mille difficoltà tutti i giorni. Lei professor Monti, mi perdoni, ma viene a raccontare a noi, che da vent’anni soffriamo, ragioniamo, facciamo politica e soprattutto esperienza personale della precarietà, nelle sue mille forme, che non si deve più cercare il posto fisso. Caro professore, davvero, come dice molto più autorevolmente di me Barbara Spinelli, arriva un po’ tardi. Non solo tardi rispetto ad una realtà del lavoro che marcia da trent’anni (ricorda? Ha mai letto i sociologi che come Gorz e altri ragionavano di lavoro precario alla fine degli anni ottanta?) ma tardi, penosamente tardi rispetto allo sforzo generoso di intelligenze politiche che la precarietà l’hanno guardata bene in faccia e non hanno prodotto solo lamento, ma analisi e proposte. La riflessione su una radicale revisione delle forme di welfare e sull’opportunità e la sostenibilità di un reddito di esistenza attraversano da un quindicennio tutta l’Europa, le sinistre radicali, ma anche sindacati e governi. Con le sue improvvide parole lei ci fa torto due volte: una prima, perché non vede e riconosce la durezza e la povertà materiale delle nostre Vite di scarto, la seconda, perché neppure riconosce lo sforzo intellettuale di comprensione e proposta che da quel disagio è emerso. E’ quest'ultima negligenza che trovo forse paradossalmente più odiosa; la pietà per i meno fortunati ha sempre fatto parte del bagaglio di molte culture religiose, come il cristianesimo, il riconoscimento della piena titolarità dell’essere un soggetto politico alla pari è stata una conquista che è costata durissime battaglie, al movimento operaio come a quello delle donne.
Ma è questa la autentica fine di ciò che di meglio la “modernità” ha significato nel mondo occidentale: un progetto politico e sociale magari fortemente conflittuale che però si declinava nello stesso mondo, nello stesso orizzonte. I protagonisti della lotta di classe, professore, per quanto male se ne potesse pensare da una parte e dall’altra (ed è ovvio quale sarebbe stata la mia) stavano sulla stessa barca, guardavano lo stesso cielo. Ora un orizzonte comune non solo non è più abitato da diversi soggetti in conflitto, né co-governato, come per esempio le socialdemocrazie con tutti i loro limiti in Europa tentavano da fare, ma è consapevolmente negato. Il privilegio torna a essere ovvio e indiscusso, ribadito attraverso la ridicolizzazione, l'infatilizzazione e la colpevolizzazione dei "poveri" (che un tempo si chiamavano appunto “vergognosi”) e degli "sfortunati". Cittadini giovani e meno giovani dalle vite dsigregate dalla precarità e dalla povertà diventanto così "cocchi di mamma", pigri bamboccioni alla ricerca di un illusorio posto fisso, concesso in passato da governanti di troppo buon "cuore" a (ormai) un manipolo di cattivoni egoisti attaccati alle proprie comodità. Che noia, doverli rimproverare tutti per le loro marachelle. Il suo linguaggio volutamente apolitico, professore, come ancora acutamente scrive Spinelli, cancella due secoli di battaglie e crescita civile e sociale come fossero una svista. Se otto ore vi sembran poche, signor primo ministro, venite voi a lavorar: e capirete la differenza che c’è tra faticar e comandar.
Paola
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