27 gennaio 2013

La deportazione tra memoria e storia

Oggi non volevo pubblicare niente e invece mi trovo a riproporre un testo troppo lungo e datato (risale al 2008), mi scuso con gli eventuali lettori, è un'esigenza personale.
In un giorno come questo.
Valentina

1. Il testimone tra memoria e storia 

Il Lager è una molteplicità che si ripropone problematicamente anche fuori dal campo, sin dal momento in cui si inizia a rielaborare la memoria di ciò che è accaduto.
Anna Rossi - Doria ha parlato di "memoria frammentata" riferendosi a tre dei soggetti* che la compongono, i deportati politici, gli ebrei e, solo nel caso italiano, gli internati militari "tale frammentazione, segnalata anche dall'assenza di un'unica associazione di ex deportati, ha radici sia nella condizione in diversa misura tragica in cui vissero e morirono nei Lager questi tre soggetti, sia nella diversa connotazione ed evoluzione della loro memoria nei decenni successivi. Non è stata ancora scritta una storia di queste tre memorie".
All'inizio, in Italia, fu la categoria dei deportati politici a rappresentare maggiormente la deportazione.
I deportati politici erano in qualche misura assimilabili ai partigiani, non soltanto perché molti di loro lo erano stati effettivamente, ma anche perché potevano comunque avocare la consapevolezza della scelta antifascista, potevano spiegare e spiegarsi, in un certo qual modo, i motivi per cui erano stati arrestati e avevano subito la prigionia: "il deportato politico era stato un resistente, un protagonista attivo della lotta di liberazione, non una vittima: poteva quindi legittimamente rappresentare la deportazione. Non a caso il simbolo di quest'ultima fu per tutto il primo periodo Buchenwald, non Auschwitz" (Rossi-Doria, 1998).
Al contrario gli ebrei erano stati deportati in virtù della loro presunta appartenenza ad una razza, motivazione che non è una motivazione e che li raffigurava irrimediabilmente come vittime passive.
Nei primissimi anni dopo la Shoah "i sopravvissuti non emergono come gruppo in alcuna parte del corpo sociale, nemmeno tra le stesse comunità di ebrei.. Le associazioni dei sopravvissuti ebrei sono semplicemente luoghi di socializzazione e di aiuto reciproco che non hanno l'ambizione di rivolgersi ad altri che non abbiano vissuto la stessa esperienza. E anche quando, raramente, compaiono degli sforzi per far emergere il ricordo nello spazio pubblico, tali sforzi non hanno alcun successo" (Wieviorka, 1999).
Il dato si riflette nel fatto che all'inizio fu latente la rielaborazione della memoria ebraica della deportazione.
Non è un caso che le uniche cinque memorie scritte da donne nei primissimi anni dalla fine della guerra, riguardino lo sterminio degli ebrei, considerando anche il fatto che i libri sull'argomento furono in totale sei, il sesto è Se questo è un uomo di Primo Levi.
Questa tendenza inizia a capovolgersi a partire dagli anni settanta.
Mentre, da un lato, si affievolisce l'eco della memoria dei deportati politici, dall'altro, la voce della memoria di chi aveva subito lo sterminio perché ebreo si fa via via più forte.
È una svolta che ha diverse ragioni di ordine politico, culturale e storico e che può essere fatta risalire innanzitutto al processo Eichmann, al fatto che in quel processo, per la prima volta, i reduci, testimoni di quell'evento liminale, raccontavano la propria storia e con essa la storia di tutte le vittime dello sterminio nazista che non potevano aver voce perché morte.
I testimoni del processo non fanno semplicemente delle deposizioni, al fine di individuare la colpevolezza o meno dell'imputato, le loro sono testimonianze di una storia che non è stata raccontata e il processo è, in questo senso, come ha più volte affermato Wieviorka, una vera e propria lezione di storia e di pedagogia della trasmissione.
Il processo Eichmann segna una vera e propria svolta rispetto all'emergere della memoria del genocidio. Con tale processo inizia una nuova epoca: quella in cui la memoria del genocidio diviene l'elemento costitutivo di una determinata identità ebraica e la sua presenza nello spazio pubblico viene rivendicata con forza".
Col passare degli anni la memoria ebraica della deportazione è diventata una memoria autorevole, la più autorevole, fino a divenire, almeno nell'opinione comune, in assoluto "la" memoria della deportazione, "oggi si tende spesso a vedere Auschwitz come il solo crimine del nazismo. I campi di sterminio sembrano aver annullato sia il lavoro forzato che la deportazione politica" (Traverso, 2005).
A proposito cito un piccolo esempio che mi riguarda personalmente, lo faccio perché mi sembra davvero emblematico, nel notiziario dell'ANPI del 28 novembre 2004 ho trovato l'articolo "Donne, Guerra e Resistenza davvero combattenti tutti uguali?", di Giuseppe Febbraro, nel quale veniva citato un mio intervento ad un convegno, il testo diceva che in quell'occasione avevo parlato di "Lidia Beccaria Rolfi, deportata ad Auschwitz", a testimoniare un automatismo che non esclude nemmeno le figure più conosciute della deportazione politica italiana.
Il risalto dato alla memoria, unito al dovere della testimonianza, ha avuto diversi esiti tra cui un continuo levarsi di voci, soprattutto negli ultimi anni, contro quello che è stato definito un culto della memoria ormai svuotato di significato e ricco solo di celebrazioni.
Di fronte all'esponenziale aumento delle testimonianze, e dei modi in cui vengono espresse e rese pubbliche, cui si è assistito a partire dagli anni ottanta, la storia si trova in una posizione difficile: come far fronte alle istanze, in particolare a quelle di ordine etico, poste dalle parole di chi ha vissuto la deportazione? Come includere narrazione dei fatti accaduti e narrazione del vissuto dei deportati?

2. La memoria tra testimonianza e storicizzazione

L'unicità di un evento come la deportazione ha reso ancora più ingente un appianamento di quello che da sempre viene definito come un conflitto: la relazione tra la memoria di un evento e la scrittura della sua storia.
Come ha sottolineato Wieviorka non esiste evento storico che abbia prodotto una massa così consistente di testimonianze, per uno studioso sarebbe un'impresa impossibile quella di riuscire ad avere un quadro completo di tale materiale.
Una mole gigantesca e variegata, difatti non solo il numero delle testimonianze è rilevante, ma rilevante è anche la diversità di mezzi scelti per comunicare tale memoria: diari, memoriali, interviste audio e video, fumetti, romanzi, quadri.
Quasi tutto il novecento è stato caratterizzato da un'istanza di rimozione della memoria, istanza che nei regimi totalitari è espressa in un vero e proprio tentativo di cancellazione oltre che di mistificazione: il nazismo, per restare nell'ambito del tema trattato nella mia ricerca, è un esempio lampante del tentativo di cancellare il passato per crearne uno nuovo perfettamente coerente con la retorica del totalitarismo.
Gli ultimi anni del novecento hanno segnato anche in Italia una netta inversione di tendenza, la memoria è "divenuta oggetto di un vero e proprio culto… (che) si è fatto parossistico, fino a sostituire la memoria alla storia, soprattutto in molti casi di «uso pubblico»" (Wieviorka, 1999).
A mio parere il culmine di questo processo si è avuto in Italia al momento dell'istituzione del Giorno della Memoria, celebrato il 27 gennaio in ricordo della data in cui è stato liberato il campo di Auschwitz.
Il Giorno della Memoria ha suscitato e suscita un'attenzione diffusa, i momenti celebrativi aumentano esponenzialmente e vengono esponenzialmente amplificati dall'attenzione dei mezzi di comunicazione.
Esempio lampante è il risalto che ha avuto, a livello mondiale, la commemorazione, nel 2005, del sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Le televisioni della maggior parte di quelli che definiamo i paesi del mondo occidentale, hanno trasmesso in diretta le celebrazioni, i mass media hanno dato ampio spazio al ricordo dei testimoni.
Tutto ciò in un clima di urgenza in cui veniva continuamente sottolineato il dovere accogliere e raccogliere le memorie dei reduci, di fronte all'inevitabile graduale scomparsa di tutti i testimoni.

3. La storia tra diritti della memoria e doveri dell'analisi

La relazione storia/memoria, tema centrale anche nel dibattito italiano sulla deportazione, trascina con sé dei nodi che ancora oggi appaiono insolubili, da qualunque prospettiva li si osservi.
Se, però, provassimo a capovolgere i punti di vista e non ci facessimo condizionare dagli schematismi, considereremmo la memoria e la storia l'una una risorsa per l'altra.
Memoria e storia non sono le due fasi di un processo dialettico in cui la sintesi passa per il superamento del dualismo, un processo di sintesi che, in ogni caso, appare oggi impossibile: la separazione sempre più netta tra le due, almeno per quel che riguarda il caso da me analizzato, ha generato una dicotomia che ha finito per ipostatizzarsi.
Credo sinceramente che andare oltre quest'impasse sia non solo auspicabile, ma anche possibile, conscia che tale superamento implica, innanzitutto, l'individuazione e la consapevolezza dei problemi che esso indiscutibilmente porta con sé.
Uno dei motivi che hanno causato il perdurare di tale conflitto nasce dall'idea che la memoria è vita che fa vivere anche chi è morto, mentre la storia è l'elaborazione del lutto e dunque presa di coscienza e accettazione della morte.
In questo non c'è l'espressione di un giudizio negativo sul significato esistenziale della memoria, credo anzi, e spero di non essere fraintesa, che per ciò che concerne il singolo, il soggetto autobiografico, la storia è, e in qualche modo deve essere, la memoria che si ha di un evento.
Per chi ricorda la memoria è la storia dell'evento narrato, in questo senso la memoria è oggettiva.
Nel raccontare il testimone spiega non solo ciò che gli è accaduto, ma spiega l'accaduto; nell'atto di raccontare il punto di vista del singolo è tale solo per chi ha un punto di vista esterno, non per il singolo stesso.
Il "diritto alla memoria" come narrazione che si ripete, implica un rapporto biunivoco con questa vivificazione, nell'atto di ricordare il testimone esiste e si riscopre vivo di volta in volta; nel riconoscere, chi ricorda, non solo viene riconosciuto, ma si riconosce. Cito le parole di Ricœur a proposito del riconoscimento, anche se io ho utilizzato il termine in un'accezione più ampia: "ritengo il riconoscimento come il piccolo miracolo della memoria. Quale miracolo anch'esso le può fare difetto. Ma quando si riproduce, sotto le dita che sfogliano un album di fotografie, o durante l'inaspettato incontro con una persona conosciuta, o la silenziosa evocazione di un assente oppure scomparso per sempre, sfugge il grido: «È lei! È lui!». E lo stesso saluto accompagna, via via, con delle colorazioni meno vive, un vento rimemorato, un saper-fare riconquistato, uno stato di cose nuovamente promosso dalla «ricognizione». Tutto il fare-memoria si riassume, così, nel riconoscimento" (Ricoeur, 2003).
Ma una memoria che, come nel caso della deportazione, deve farsi carico non solo di far vivere il ricordo, ma anche di ricostruire il contesto dentro cui questo ricordo si è creato, è una memoria non libera, una memoria costretta ad esercitarsi dentro binari rigidamente stabiliti, una memoria che si fa canone.
Saul Friedländer, in un'intervista del 27 gennaio 2007 ha sottolineato i rischi di un tale appiattimento, secondo lo storico i testimoni hanno ormai "la tendenza a narrare in modo molto standardizzato, organizzato, come se stessero recitando. Lo noti seguendoli negli incontri pubblici, nelle scuole, durante le interviste. L'esperienza della Shoah è diventata narrazione, la memoria si è fatta rappresentazione".
Le considerazioni di Friedländer avanzano alcune questioni che non possono essere ignorate da chi si occupa di storia della deportazione.
È un dato di fatto incontrovertibile che la trasmissione della portata storica della deportazione è stata affidata quasi esclusivamente ai reduci che hanno testimoniato, un carico cui essi hanno risposto meritoriamente, sforzandosi di contestualizzare i propri ricordi e non abbandonandosi mai all'onda delle emozioni che il loro racconto suscita.
Una storia che teme di fare un torto ad una memoria dolorosa ed eccezionale, anche solo nell'atto di esercitare il proprio dovere alla critica, è una storia non libera, una storia che non è analisi, ma trascrizione.
Una cosa è certa, nella sua apparente banalità, la storia della deportazione può essere scritta solo utilizzando come fonte la memoria dei testimoni di quest'evento.
Unicità e ineffabilità non possono tradursi, per lo storico, in indicibilità: è questo il vero torto che si fa a alla memoria di chi è stato deportato. 

Valentina

*Perché, è il caso di ricordarlo, ci sono anche gli omosessuali, i Rom, i testimoni di Geova...

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