Is nuclear the answer?
Sabato 26 aprile 1986 ero al mare, per il ponte festivo che portava i primi turisti sulle spiagge di una primavera calda che faceva pensare ad un'estate precoce. Arrivarono le prima notizie dal reattore di Chernobyl e non sapevo bene che fare ma sentivo che niente sarebbe stato più come prima.
Facevo parte di una generazione cresciuta con la paura della bomba, e mentre ogni giorno che passava era sempre più evidente come la guerra fredda andasse perdendo per manifesta incapacità uno dei suoi due terribili contendenti, il blocco sovietico che di lì a poco si sarebbe sbriciolato, ci restava il terrore che da qualche parte un incontrollabile Dottor Stranamore pigiasse il suo autorevolissimo nonché folle dito sul bottone rosso.
Poi arrivò Chernobyl, e ci disse inequivocabilmente come non esistesse un nucleare buono e una bomba cattiva, ma come i due fossero indissolubilmente legati; come misurare il rischio fosse impossibile, come il nemico fosse così insidioso e invisibile da insinuarsi nelle nostre vita quotidiana, da avvelenare silenziosamente gesti così semplici come godersi il sole primaverile su un prato o mangiare un'insalata appena colta. Chernobyl ci aveva tolta – pensavamo per sempre – l'innocenza della tecnologia che tutto risolve e tutto tiene sotto controllo per il progresso senza fine di un'umanità liberata dal bisogno.
Per la verità già molte voci si erano levate contro questo sogno, così ingannevole, così maschile, di facile dominio di una natura matrigna – e perciò – donna. E molte voci di donne intelligenti e autorevoli si ritrovarono a ragionare con sofferenza e con partecipata intelligenza sulle finalità della scienza, sull'etica della responsabilità e sul limite che quello iato incommensurabile tra finitezza umana e spaventosa potenza della tecnologia imponeva di riconoscere, di accettare, di praticare con coscienza e condivisione. Perché Chernobyl era posto su un confine da cui ci era imposto di guardare oltre, e in quell'oltre si vedevano conseguenze che non si potevano umanamente calcolare, nella loro estensione nello spazio (fin dove sarebbe arrivata la nube?) e nel tempo (per quante generazioni future?). Non so bene perché quella stagione – come altre del femminismo e della politica in questo paese – non abbia prodotto memoria comune di sé, una trasmissione efficace. Su questo non dovremmo smettere di interrogarci. Ma così è stato, e gli anni successivi, che pure avrebbero moltiplicato in molti ambiti il pressante allarme risuonato quel 26 aprile, si sarebbero pure incaricati di risucchiare in una sorta di vuoto dell'esperienza e dell'intelligenza le voci di quel dibattito.
Così, il 18 marzo 2011 mi ritrovo in treno, ad ascoltare involontariamente una (autorevole, sembra, dalle frequentazioni nella capitale...) sconosciuta commentare con stizza col vicino di posto la “rottura di coglioni” del Giappone che ci metterà i bastoni fra le ruote nel realizzare le nostre belle centrali. E che lei – in spregio ai patetici nimby* – una, nel suo giardino, la metterebbe sicuramente...
Come posso spiegarle che i confini del “suo” giardino si sono mostruosamente allargati fino ad inghiottire le vite, la salute e il futuro di interi continenti, di intere generazioni? Dopo Chernobyl, per mettere a tacere chi ci chiamava a ripensare il nostro posto di umani sul pianeta (noi, infinitesima parte del vivente che con la propria mette in discussione la sopravvivenza di innumerevoli altri, vertice pensato come neutro universale, misura di tutte le cose che scopriva la sua parzialità, di genere e di specie) ci hanno detto che non si poteva condannare l'uso dei nucleare buono e benefico sulla base di un incidente dovuto a imperizia (ma quella non fa forse parte della nostra umanità? - mista alla fraudolenta tendenza alla menzogna – per interesse politico o calcolo economico) e alla prevedibile obsolescenza dei vecchi trascurati impianti del gigante sovietico al tramonto. Ma il teatro di questa nuova tragedia non era forse l'efficiente, incorruttibile, ipertecnologico, ricco Giappone? E non ha forse mentito, per puro interesse, la Tepco, società privata che gestisce la centrale, esattamente come mentì quasi 25 anni fa la burocrazia sovietica?
Non nel “mio”giardino, per favore. Non su questo pianeta.
Paola
* Not in my backyard, detto solitamente con spregio di tutti quei movimenti e aggregazioni di cittadini che si attivano contro la costruzione di impianti nocivi nel proprio territorio, accusati, molto spesso a torto, di voler semplicemente spostare il problema un po' più in là dal proprio piccolo particulare.
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