15 marzo 2011

Senso e doppio senso ovvero della rappresentazione delle donne e dell'habitat culturale in cui si riproduce

In uno degli episodi di “Family Guy” (serie animata statunitense che smaschera con ironia la mediocrità e l'ignoranza di una certa cultura non solo americana) la famiglia protagonista è seduta di fronte alla televisione, sullo schermo si vedono due donne seminude distese su un prato che si spal­mano a vicenda l'olio solare con atteggiamento sensuale, l'inquadratura si sposta su alcune bottiglie  mentre una voce fuori campo dice: “Se compri questa birra delle donne focose faranno ses­so nel tuo giardino” - l'ambientazione, è evidente, allude al tanto tipico quanto immarcescibile immagi­nario erotico finto lesbo che si perpetua in linea maschile di generazione in generazione, quasi ine­luttabilmente. Dal divano Lois, la moglie-madre, esclama indignata: “Tipica fantasia maschile  - smorfia di fastidio - le donne che bevono birra! Ti garantisco che è stato un uomo a fare quella pub­blicità.”, al che Peter, il marito-padre, le risponde: “Ma certo che è stato un uomo: è una pubblicità, non la cena per il giorno del ringraziamento!”.
Surreale? Esagerato? Ridicolo? No, siamo noi: qui, ora.
La verità, nella sua complessità, ci appare così com'è solo nella sua finzione, come in un'opera d'arte iperrealista.
Qui, ora, in Italia, lo stereotipo “santa o prostituta” assume nuove brillanti vesti grafiche, senza mutare nella sostanza. Da un lato, un'azienda che produce pannelli fotovoltaici ci offre una versione photoshop del fordismo con l'immagine di una donna in perizoma e scarpe rosse che, accovacciata sulle ginocchia, invita gli astanti a montarla gratis; dall'altro lato, un'azienda che produce bibite si dà alla speculazione matematica postulando che: se un uomo si ad­diziona ad una donna il risultato è il desiderio di fare sesso, se una donna si addiziona ad un uomo il risultato è il desiderio di fare figli.
Sono i due estremi di un pensiero unico, pervasivo e influente, di cui tutti noi siamo permeati e con cui tutti noi dobbiamo fare i conti.
Bisogna indignarsi e reagire, e le donne – molto più degli uomini – si indignano e reagiscono.
Eppure, ogni volta che si tenta di articolare un ragionamento su questi temi si viene infilate a forza  nel cul de sac dei “Sì ma...” e dei “C'è di peggio”, con la violenza invasata tipica della pulsione normalizzatrice che punta all'annientamento.
Il corpo delle donne è oggi il luogo fisico di un discorso da cui le donne sono escluse come soggetti.
L'utilizzo di un linguaggio sessista e di immagini che definiscono i sessi in maniera unidimensionale, senza metterli in prospettiva, perpetua una cultura in cui i ruoli della donna e dell'uomo sono de­finiti e sclerotizzati. In tal modo si danno per scontate relazioni che non prevedono il rispetto del corpo e della persona, e si costruiscono modelli identitari che non ammettono la libertà di scelta e l'autodeterminazione, identità eterodirette.
Sono modelli dai quali sembra impossibile derogare, se non nel caso di eccezioni che però vengono considerate eccentriche e che poi, a ben guardare, richiamano comunque gli stereotipi più comuni sull'immaginario sessuale dell'uomo etero.
Il ruolo della donna è quello della seduttrice passiva che non sceglie e il ruolo dell'uomo è quello del seduttore attivo che non ha scelta, se non quella di sedurre.
C'è uno sguardo esterno ed estraneo che, oggi come ieri, ha la pretesa di definire la soggettività femminile e normarla.
Questi occhi partoriscono una femminilità debole e pericolosa, asservita e incapace di decidere.
Questi occhi presuntuosi modellano La Donna.
Ma questa donna con la D maiuscola non esiste, sebbene sia proprio di lei che, il più delle volte, si par­la nel dibattito pubblico.
C'è un ipotetico Corpo Collettivo delle donne come un Golem obbediente e servizievole da annichilire quando cresce troppo, essere privo di intelletto e incapace di prendere decisioni autonomamente.
L'epoca reazionaria in cui viviamo è una vasca di deprivazione sensoriale dentro la quale galleggiamo igno­rando la profondità ed eludendo la critica.
A questa cultura bisogna ribellarsi, su questa cultura - parafrasando Carla Lonzi - bisogna sputare.


Valentina 


Apparso su la rivista il Mulino online il 23 agosto 2010

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