C’é una generazione/non generazione di donne che rischia di sparire.
Una generazione/non generazione di donne dai 30 ai 48 anni, compressa tra chi c’è stato (e c’è) e chi ci sarà (e c’é).
Una generazione/non generazione che, da un lato, incontra enormi difficoltà a inserirsi nello spazio pubblico più tradizionale, eppure ancor oggi più autorevole, dell’accademia e della produzione scientifico-letteraria intesa nel senso più ampio e, dall’altro, non può e non vuole più essere assimilata ad una ventenne nell’eterna parte della discente.
Questa generazione apparentemente fantasma ha vissuto un’esperienza inconsueta: ha riconosciuto il valore del movimento politico che l’ha preceduta e della cultura che ha prodotto; ha studiato, esaltato, rielaborato quell’esperienza cercando linguaggi nuovi che non negassero ma che esaltassero quell’eredità; ma non è avvenuto l’inverso.
Le femministe degli anni settanta hanno sostenuto la necessità di uccidere simbolicamente le madri per conquistare la propria autonomia di donne, noi le nostre madri non volevamo ucciderle - anzi - ma esse ci hanno ripudiato.
Paola Di Cori, in un articolo pubblicato su Posse del Giugno 2008 dal titolo “Generazioni di femministe a confronto: precarietà versus corporazioni?”, ha parlato di spazi ristretti e non comunicanti nei quali alle più giovani non è concesso di esprimersi - se non in qualità di Giovani, aggiungo io - sono “spazi dentro l’istituzione accademica, culturale e politica, la pagina di un quotidiano, la rubrica televisiva, una casa editrice, la redazione di riviste o settimanali, le commissioni di pari opportunità a livello locale, regionale o provinciale. In essi ‘le giovani’ non possono che trovarsi in posizioni subalterne”.
Oltre lo specchio, però, c’é ben altro.
La generazione presunta fantasma di cui parlo ha prodotto e produce molte e vivaci elaborazioni politiche e culturali, ma lo fa attraverso canali “altri” che ancora non hanno lo stesso riconoscimento pubblico di quelli consueti.
Queste donne si riuniscono in associazioni e collettivi in cui si riflette sull’agire politico e si creano nuove pratiche politiche; scrivono in riviste, blog, siti internet fuori dal circuito tradizionale dell’editoria; producono elaborazioni filosofiche, storiche e letterarie che segnano la cifra di nuovi femminismi; si confrontano tra loro in ambiti meno istituzionali, in seminari e workshop auto organizzati, attraverso la circolazione fluida di saperi e pratiche condivise.
Noi ci siamo, ci sono i nostri corpi, ci sono le nostre parole, ci sono le nostre idee.
Propongo di guardare la situazione rovesciandola, ossia non considerando una sconfitta la difficoltà di emergere nei luoghi più tradizionali del dibattito pubblico e dell’elaborazione intellettuale, ma esaltando e dando valore alle pratiche e ai luoghi, fisici e virtuali, nei quali sono nate e continuano a nascere nuove elaborazioni di pensiero, al di là del loro immediato riconoscimento all’esterno.
E se è vero che la molecolarizzazione delle esperienze rende più debole la voce di questa generazione, è altrettanto vero che essa va strettamente legata alla precarietà materiale ed esistenziale con cui ogni giorno facciamo i conti.
La spinosa questione della trasmissione deve essere affrontata attraverso un riconoscimento reciproco, in cui entrambi le parti si guardano con occhi limpidi: io devo essere riconosciuta, non solo riconoscere.
Bisogna riconoscersi reciprocamente, bisogna trovare spazi comuni di discussione, bisogna esporsi senza paure né complessi.
Valentina
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