10 giugno 2011

I diritti umani alle porte dello Stato-nazione: un'analisi di genere sulla cittadinanza trasnazionale

Human rights and national laws sistems in a gender perspective: migrant women and trasnational citizenship

Duole da sempre il nesso tra donne e cittadinanza, rapporto contraddittorio e imperfetto, acrobaticamente sospeso tra una ovvia necessità di inclusione e allargamento e una meno ovvia, ma altrettanto se non più necessaria, istanza di ripensamento della cittadinanza stessa. A completare – e complicare – il quadro viene una impeccabile analisi di genere che ci è stata offerta dalla studiosa di diritto Orsetta Giolo dell'impatto che la migrazione da una parte e il diritto internazionale nella declinazione dei diritti umani stanno avendo sulla legislazione nazionale degli Stati-nazione in un seminario tenuto il 7 giugno a Bologna che aveva come oggetto alcuni aspetti della cittadinanza trasnazionale delle donne migranti.
Il tema meriterebbe assai più di un post, ma è una riflessione ricca e forse non troppo conosciuta per cui è bello darne conto qui, almeno per stimolare a una lettura più puntuale.
Giolo ha giustamente ricordato la giustificata diffidenza del pensiero femminista verso ogni universalismo e quindi la discontinua attenzione che è stata posta al tema dei diritti umani; eppure, ci mette in evidenza la sua analisi, questo sistema di diritti, che uomini e donne possono rivendicare non a partire dalla appartenenza ad una comunità nazionale (ricordate la creazione della figura dell'apolide come esclusione dall'umano consesso che accompagna la messa a punto della macchina dello sterminio ne Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt?) - condizione che per ragioni ampiamente indagate esclude le donne – ma in ragione del loro nascere umani. Insomma, diritti umani universali (ancorché neutri e da declinare) versus diritti nazionali, umanità versus comunità nazionale di sangue e suolo. Giolo ci ha ricordato come ancora oggi, in Italia ad esempio, si accede alla cittadinanza o per Jus sanguinis, ossia se si è figli di un cittadino italiano (e non è da molto che anche le donne possono trasmettere la cittadinanza) o per matrimonio (ma la condizione deve sussistere non solo al momento della richiesta, ma anche al momento della concessione, anni dopo: vietato separarsi!) e solo dopo molto tempo e con grande difficoltà per residenza, ossia per scelta da parte dell'individuo/a che si stabilisce in un paese in cui studia, lavora, paga le tasse, fa parte della “comunità”. Nei primi due casi, è forse superfluo sottolineare, l'accesso alla cittadinanza è legato ad un vincolo di parentela, di famiglia, di “sangue” (sappiamo bene cosa questo significhi per le donne). Le donne, sostiene Giolo, non hanno molto da guadagnare dalla cittadinanza dello stato nazione, in un panorama di di diritto ancora fortemente improntato da radicati stereotipi di genere: basti pensare che le uniche eccezioni ai decreti di espulsione nei confronti di cittadine senza permesso di soggiorno sono l'articolo 18, che tutela le donne vittime di tratta che accettano di collaborare con le forze dell'ordine (la prostituta) e la donna incinta fino a sei mesi dopo la nascita del bambino (la madre).
Paola

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