Women’s
generations and cultural heritage of feminism in Italy: what didn’t work?
Riesplode periodicamente e rimane comunque sempre sotto
traccia la questione (di cui anche recentemente ci siamo occupate) della
trasmissione del patrimonio di saperi e pratiche del femminismo. Riemerge recentemente,
per esempio, in questo intervento di Letizia Paolozzi e Franca Chiaromonte,
laddove scrivono: "Però il femminismo ha accumulato sapere. L’ha messo a
disposizione. Peccato che ogni volta sembra di ricominciare daccapo" e ancora "Quando
una comunità chiude con la memoria, finisce per chiudersi in se stessa".
Brucia particolarmente che un movimento e una tradizione
politica così innovative, creative e straordinariamente feconde come quella
delle femminismo – io credo, la più straordinaria tradizione politica del novecento
– sia ridotta (in buona e numerosa compagnia, per altro) a lamentare questo
vuoto, questa assenza di riconoscimento, conoscenza, memoria.
Certo, il “nemico” era fortissimo, e compre spesso accade,
la lotta per definizione impari. Gli ultimi tre decenni hanno lavorato
alacremente ad una sorta di stordimento collettivo che ha avuto nell’assenza di
memoria storica e culturale una delle sue armi più riuscite per la produzione
di un eterno presente di distrazione di massa.
L’ho pensato, l’abbiamo pensato molte volte; l’ultima
stamane rileggendo per ragioni di studio e con grande struggimento il dialogo a
due voci di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta che funge da introduzione a
Teorie del femminismo, terzo volume del Lessico politico delle donne nell’edizione
del 1978. Una scrittura non sempre agevole ma potente e ricchissima, e
soprattutto, una straordinaria messa a fuoco di temi e domande urgenti che
conservano ancora, dopo più di trent’anni, la stessa urgenza.
Cosa è successo allora? Perché la trasmissione si è
interrotta? Perché i fili si sono spezzati, lasciandoci sole e soli di fronte a
queste domande?
Io non riesco ad accontentarmi di accusare la potenza del
nemico e l’ignavia delle generazioni successive. La nostra intelligenza
consente e chiede alle generazioni di femministe in gioco qualcosa di più, un’analisi
che sia all’altezza del lavoro teorico – misconosciuto e dimenticato –che pure
è stato fatto.
E quindi non mi sottraggo. Provo ad indicare due piste per
ritrovare il filo che sembra essersi spezzato.
C’è stata o no, c’è o no una difficoltà da parte del
femminismo a confrontarsi con la dimensione del divenire storico delle
generazioni successive? Una difficile lettura e scarso riconoscimento del mutare
di prospettive ed esperienze sociali ed esistenziali che ha radici, a mio
parere, nell’autorappresentazione del
femminismo degli anni settanta come assoluto nuovo inizio, che se poteva
recuperare in chiave di prodromo quanto di misconosciuto dalla cultura maschile
c’era stato nel passato, più difficilmente faceva i conti con quello che
sarebbe potuto venire dopo? E quanto ha a che vedere questo con il nodo
irrisolto della generazione simbolica e dell’onnipotenza femminile?
Un altro passaggio scabroso può essere rappresentato da una
delle intuizioni folgoranti di Carla Lonzi, quel suo “il blocco va forzato una
per una” che rappresenta perfettamente una delle aporie teoriche che il
femminismo, quasi contro ogni tradizione filosofica, ha coraggiosamente
affrontato: quale relazione è possibile tra movimento collettivo e dimensione
individuale? Se la radice dell’oppressione è dentro la nostra coscienza,
radicata nella nostra sessualità, se, appunto, il “personale è politico” come
si fa a tradurre questo lavoro di coscienza, impervio, segreto, imprevedibile,
viscerale in un agire politico pubblico che modifichi l’assetto del mondo? Che
cosa può essere di tutte e che cosa solo di ciascuna, se non esiste “la donna”,
il “genere femminile”, la “condizione femminile” ma piuttosto le donne e la
soggettività di ogni singola? E’ vero
che il femminismo si è dimostrato straordinariamente creativo anche in questo,
inventando per esempio l’inedita pratica dell’autocoscienza; ma l’autocoscienza
si fa, non si insegna; si esperimenta, non si racconta; non può dare risultati
acquisiti una volta per tutte e strumentazione già pronta per essere usata in una battaglia politica.
Certo, questo
interrogarsi può diventare davvero estenuante e frustrante. Siamo prese dentro l’ennesima
contraddizione (pare che siano la nostra specialità): se agiamo immemori di questi interrogativi,
diamo per scontato che le donne siano una sorta di gruppo sociale omogeneo, mosso
dagli stessi bisogni, in lotta per ottenere “inclusione” e tutele. Abbiamo imparato che questa visione è
pericolosamente parziale e scarsamente efficace. Ma resta ancora aperta la
questione di quale agire pubblico e collettivo, perché le discriminazioni
esistono e sono drammaticamente concrete; perché il femminismo è stato, sono
parole di Frabotta nella stessa introduzione “una esigenza di alternativa
globale” e una utopia che ha ipotizzato “la felicità come superamento della
necessaria conflittualità fra i sessi” (senza specificare quanti fossero…).
Paola
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