25 maggio 2012

Femminismo: laddove il filo sembra essersi spezzato

Women’s generations and cultural heritage of feminism in Italy: what didn’t work?

Riesplode periodicamente e rimane comunque sempre sotto traccia la questione (di cui anche recentemente ci siamo occupate) della trasmissione del patrimonio di saperi e pratiche del femminismo. Riemerge recentemente, per esempio, in questo intervento di Letizia Paolozzi e Franca Chiaromonte, laddove scrivono: "Però il femminismo ha accumulato sapere. L’ha messo a disposizione. Peccato che ogni volta sembra di ricominciare daccapo" e ancora "Quando una comunità chiude con la memoria, finisce per chiudersi in se stessa".
Brucia particolarmente che un movimento e una tradizione politica così innovative, creative e straordinariamente feconde come quella delle femminismo – io credo, la più straordinaria tradizione politica del novecento – sia ridotta (in buona e numerosa compagnia, per altro) a lamentare questo vuoto, questa assenza di riconoscimento, conoscenza, memoria.
Certo, il “nemico” era fortissimo, e compre spesso accade, la lotta per definizione impari. Gli ultimi tre decenni hanno lavorato alacremente ad una sorta di stordimento collettivo che ha avuto nell’assenza di memoria storica e culturale una delle sue armi più riuscite per la produzione di un eterno presente di distrazione di massa.
L’ho pensato, l’abbiamo pensato molte volte; l’ultima stamane rileggendo per ragioni di studio e con grande struggimento il dialogo a due voci di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta che funge da introduzione a Teorie del femminismo, terzo volume del Lessico politico delle donne nell’edizione del 1978. Una scrittura non sempre agevole ma potente e ricchissima, e soprattutto, una straordinaria messa a fuoco di temi e domande urgenti che conservano ancora, dopo più di trent’anni, la stessa urgenza. 


Cosa è successo allora? Perché la trasmissione si è interrotta? Perché i fili si sono spezzati, lasciandoci sole e soli di fronte a queste domande?
Io non riesco ad accontentarmi di accusare la potenza del nemico e l’ignavia delle generazioni successive. La nostra intelligenza consente e chiede alle generazioni di femministe in gioco qualcosa di più, un’analisi che sia all’altezza del lavoro teorico – misconosciuto e dimenticato –che pure è stato fatto.
E quindi non mi sottraggo. Provo ad indicare due piste per ritrovare il filo che sembra essersi spezzato.
C’è stata o no, c’è o no una difficoltà da parte del femminismo a confrontarsi con la dimensione del divenire storico delle generazioni successive? Una difficile lettura e scarso riconoscimento del mutare di prospettive ed esperienze sociali ed esistenziali che ha radici, a mio parere, nell’autorappresentazione  del femminismo degli anni settanta come assoluto nuovo inizio, che se poteva recuperare in chiave di prodromo quanto di misconosciuto dalla cultura maschile c’era stato nel passato, più difficilmente faceva i conti con quello che sarebbe potuto venire dopo? E quanto ha a che vedere questo con il nodo irrisolto della generazione simbolica e dell’onnipotenza femminile?
Un altro passaggio scabroso può essere rappresentato da una delle intuizioni folgoranti di Carla Lonzi, quel suo “il blocco va forzato una per una” che rappresenta perfettamente una delle aporie teoriche che il femminismo, quasi contro ogni tradizione filosofica, ha coraggiosamente affrontato: quale relazione è possibile tra movimento collettivo e dimensione individuale? Se la radice dell’oppressione è dentro la nostra coscienza, radicata nella nostra sessualità, se, appunto, il “personale è politico” come si fa a tradurre questo lavoro di coscienza, impervio, segreto, imprevedibile, viscerale in un agire politico pubblico che modifichi l’assetto del mondo? Che cosa può essere di tutte e che cosa solo di ciascuna, se non esiste “la donna”, il “genere femminile”, la “condizione femminile” ma piuttosto le donne e la soggettività di ogni singola?  E’ vero che il femminismo si è dimostrato straordinariamente creativo anche in questo, inventando per esempio l’inedita pratica dell’autocoscienza; ma l’autocoscienza si fa, non si insegna; si esperimenta, non si racconta; non può dare risultati acquisiti una volta per tutte e strumentazione già pronta per essere usata in una battaglia politica.


Certo, questo interrogarsi può diventare davvero estenuante e frustrante. Siamo prese dentro l’ennesima contraddizione (pare che siano la nostra specialità):  se agiamo immemori di questi interrogativi, diamo per scontato che le donne siano una sorta di gruppo sociale omogeneo, mosso dagli stessi bisogni, in lotta per ottenere “inclusione” e tutele.  Abbiamo imparato che questa visione è pericolosamente parziale e scarsamente efficace. Ma resta ancora aperta la questione di quale agire pubblico e collettivo, perché le discriminazioni esistono e sono drammaticamente concrete; perché il femminismo è stato, sono parole di Frabotta nella stessa introduzione “una esigenza di alternativa globale” e una utopia che ha ipotizzato “la felicità come superamento della necessaria conflittualità fra i sessi” (senza specificare quanti fossero…).
Paola

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