20 maggio 2012

Una economia differente per una buona vita - Considerazioni introduttive

These days
Ci sono giorni in cui non ci resta che imparare, nostro malgrado, l'amarissima e straziante lezione della ineluttabile fragilità della comune condizione umana. Il dolore, il male, la morte rimangono largamente incomprensibili e senza riscatto nonostante tutti i nostri sforzi. Tra la mattina di ieri e le prime ore della mattina di oggi ne in questo paese ne abbiamo avuto tutti un esempio, per quel che mi riguarda anche privato. Mentre sullo sfondo in Europa a milioni siamo in attesa di essere sbranati dai “mastini dello spread”. Ciascuno medica come può le ferite e i colpi che riceve. Io cerco, con le mie compagne di avventura, di continuare a scrivere, a lavorare, ad aggiornare questo blog. È senz'altro poco, è sempre meno di quello che sarebbe necessario, è quello che so fare.

An alternative economy for a better life  (english summary coming soon)

Ho scelto di pubblicare qui una sintesi in tre parti di una ricerca cui sto lavorando da tempo. La ricerca si è svolta sinora con la raccolta di 11 interviste a donne che stanno facendo esperienze di “economia alternativa”. La definizione è volutamente generica e prende in considerazione donne che hanno reinterpretato professioni tradizionali in una chiave innovativa, che hanno dato vita a esperienze che potremmo definire di autoimprenditoria, o che collaborano a nuove forme di economia attraverso scambi solidali e non monetari.
Le esperienze e le reti cui queste donne fanno riferimento nella loro attività rappresentano una galassia assai composita in cui confluiscono vari filoni di pensiero:  il consumo critico inteso anche come messa in discussione delle forme attuali della globalizzazione e la denuncia delle relazioni squilibrate tra nord e sud del mondo;  l'ambientalismo, la consapevolezza che le risorse del pianeta si vanno esaurendo e la critica alla ideologia dello sviluppo crescente e illimitato. Di qui la necessità di trovare una definizione abbastanza ampia e generale da poterle ricomprendere tutte. 
Queste esperienze restano molto diverse fra loro come rimane del tutto aperta la questione della possibilità, o dell'opportunità, della costruzione di un comune soggetto politico (considerato forse meno rilevante della realizzazione di esperienze concrete), comune però è un orizzonte non tanto ideologico, quanto piuttosto prodotto dalla circolazione delle singole esperienze, di concetti e linguaggi che si interrogano non solo sulla indesiderabilità dell'attuale modello di sviluppo produttivista e industrialista ma anche sulla sua sostenibilità ormai a breve/medio termine: per lo  sfruttamento eccessivo cui sottopone le risorse naturali del pianeta, per l'enorme disparità economica che produce e che condanna alla fame o alla estrema povertà miliardi di persone al mondo, per l'incapacità che mostra (ancor più dall'inizio della crisi) di creare speranza, giustizia e una buona vita anche per tanta parte del nostro ricco occidente.

Questo lavoro è stato concepito circa due anni fa, quando già la crisi economica aveva preso avvio,  anche se forse non ne vedevamo ancora gli esiti più distruttivi. Per la verità, per chi come me frequentava da tempo letture attorno a problematiche ambientali e di esaurimento delle risorse, e si sentiva parte del movimento che ha messo in discussione ormai da più di dieci anni il volto feroce di questa globalizzazione capitalistica, non è poi tanto vero che la crisi sia giunta inaspettata. Certo, nessuno è o è stato in grado di prevederne esattamente i tempi, lo sviluppo e gli esiti, ma i segni mi sembravano tutti abbastanza chiari. D'altro canto, la profondità e la pervasività della crisi economica, con l'emorragia quotidiana di posti di lavoro, con la contrazione sempre più drammatica del welfare, con intere generazioni che si trovano senza alcuna tutela rischia di far sembrare, ancora più di prima, le esperienze raccontate nelle interviste condotte per questa ricerca come comode vie di fuga per anime belle e fortunate. Mentre le obiezioni di chi ha prodotto il disastro presente diffondendo una vulgata economica irresponsabile al solo scopo di preservare il proprio potere e profitto non fanno male più di tanto, altre obiezioni bruciano, quando vengono da persone e da luoghi con cui ho condiviso molto in questi anni e a cui riconosco lucidità nel vedere le dimensioni e i contorni della posta in gioco nel capitalismo globale. Queste amiche e amici critici ci dicono: dateci soluzioni, battaglie sociali che possiamo condurre, risposte alle migliaia di lavoratori in cassa integrazione, ai milioni di precari, ai milioni di pensionate e pensionati mancati che dovranno faticare ancora non si sa quanto. Come si fa a dare loro una risposta decente se non facendo ripartire alla grande l'economia?
È chiaro che di fronte a problemi con una mole simile, queste dieci piccole storie impallidiscono. E però non voglio stare al gioco che mi, che ci, ricaccerebbe nella insignificanza. Perché non trovo sia poi del tutto vero che questi racconti di vita non ci dicono nulla sugli enormi problemi sociali di cui sopra. E non sono neppure il giocattolo felice di qualche radicale annoiato; le alternative ci sarebbero, se solo a qualcuno venisse in mente di discuterne. Ci sarebbero sul fisco, sul welfare, sull'energia, sulla mobilità. Perché il problema non è tanto che questo movimento non sia in grado di immaginare alternative concrete e credibili (per quanto il lavoro da fare resti enorme, e le contraddizioni tante) quanto che se si esce dall'assioma “There's no alternative”, crolla il castello di carta su cui è stata costruita la politica neoliberista vincente in tutto il pianeta negli ultimi trent'anni.  Se solo si immagina che una alternativa sia possibile, allora tutto quello che oggi viene presentato come ineluttabile e necessario, una legge di natura, cessa di esserlo. Semmai abbiamo bisogno di una grande sforzo di intelligenza collettiva per elaborare proposte politiche utili a trasferire esperienze e soluzioni dalle realtà di “nicchia” ( per quanto alcune lo abbiano già fatto da sole), a quello delle soluzioni politiche utili a un intero corpo sociale, (una cosa di cui, sentiamo un grande bisogno). Qualche passo in questo senso è stato compiuto, negli ultimi due anni: il timore, per il quale penso sia stato utile condurre e concludere questo lavoro, è che il ricatto dell'emergenza della crisi ci impedisca di vedere non solo che le alternative sono possibili, ma che probabilmente, al di fuori di esse, la giustizia sociale e un futuro di pacifica convivenza sono difficilmente possibili. In questo senso, come bene ha sostenuto Guido Viale, davvero “There's no alternative”.
Nella narrazione di queste storie di vita “macro” e “micro” provano a tenersi insieme. Le esperienze raccontate attraverso queste interviste sono soltanto storie di vita, e insieme non lo sono. Sono solo tentativi individuali, non hanno la pretesa di essere soluzioni applicabili a prescindere dalle singole e diverse situazioni concrete, sono sentieri impervi, strumenti migliorabili, modificabili, discutibili e nello stesso tempo si collocano però all'interno di uno scenario comune. Nelle intenzioni e nelle scelte di queste donne non c'è una coerente visione ideologica comune, né sarebbe corretto che gliela appiccicassi addosso io, a partire da quelle che sono le mie convinzioni. È chiaro però che tute condividono un'urgenza, una tensione a superare i limiti di quello che viene presentato come unico mondo possibile. Come dicevo, sono esperienze molto diverse fra loro. Con un diverso rapporto tra la ricerca di un equilibrio personale e un possibile cambiamento sociale. Ma la cosa interessante è che in nessuna è assente la consapevolezza che le due cose sono intimamente legate, che si fa “politica” su molti piani diversi contemporaneamente, e che in questo nostro mondo smaterializzato e  sempre più forzosamente omogeneo per opporre la minor resistenza al consumo, riprendere il controllo sul proprio lavoro, i propri ritmi di vita, fare qualcosa con le proprie mani o lavorare con chi lo fa sono sì atti piccoli ma tutt'altro che neutri, sono sì atti individuali, ma tutt'altro che individualisti e solipsisti.

Paola

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