15 maggio 2012

Il glicine e la gatta. Sulle tracce di Caterina - Recensione a I lumi e il cerchio di Emma Baeri

Con questa recensione inauguriamo la Biblioteca di wedwellinpossibility con l’invito a leggere e rileggere, cominciando da Emma Baeri, I Lumi e il cerchio. Una esercitazione di storia, Soneria Mannelli, Rubbettino, 2008, 230 p., (prima edizione Editori Riuniti, 1992).


I Lumi e il cerchio è un saggio di storiografia, almeno in parte. Del saggio storiografico mantiene lo stretto rapporto con la fonte, riveduto e corretto. È un’esercitazione di storia – come chiarisce sin dal titolo l’autrice medesima –, una storia che per essere raccontata necessita della ricostruzione di molte altre storie. È una biografia ed è anche una raccolta di  poesie.
La narrazione dunque si svolge su più piani, passando da un genere all’altro. I passaggi seppure a volte impervi non risultano mai stonati o disomogenei, l’armonia ne è garantita dal ricorso ad un registro nuovo. Una scrittura di genere, de-generata e ri-generata da una donna scrivente che si riconosce tutta intera.
Il testo è infatti tutto costruito intorno all’elaborazione di una rinascita, quella di una donna, meridionale, storica di professione, esperta di storia moderna, che incontra il femminismo.

«Tempo, memoria, utopia, identità erano parole di gusto nuovo […] Due grandi esperienze fondavano questa epifania, il collettivo di autocoscienza e il coordinamento per l’autodeterminazione: il sapere delle pagine che seguono ha questa origine chiara, i cerchi delle donne, ché questa è l’immagine del nostro stare insieme fissa nella mia mente. Il dono della parola restituita dieci, cento volte, il dono del silenzio pure. Nel collettivo il tempo si era fermato, l’utopia era il presente, la memoria era corta quanto la nostra identità: noi eravamo la storia. La transizione tra questi due tempi fu lavoro duro del gruppo politico, il coordinamento per l’appunto, spazio di confine in cui scoprimmo che i tempi delle donne non reggevano l’impatto coi tempi della realtà, che l’utopia si rifugiava di nuovo nel tempo e nello spazio come ci avevano insegnato, che la memoria doveva recuperare l’emancipazione, l’identità il conflitto» (p. 11).

La contaminazione della vita che prende corpo nel cerchio stride con le “convenienze” dell’educazione e anche con quelle del mestiere. Di questo l’autrice prende atto quando, nel 1986, cominciando a ripercorrere gli appunti raccolti in anni di studio sul canonico De Cosmi, direttore delle regie scuole normali, non può fare a meno di constatare la freddezza di quelle note. «[…] il senso della realtà era prudentemente espunto perché oltremodo sconveniente, come sconveniente era il corpo e i suoi discorsi» (p.121). Eppure quelle note risultavano contaminate. La stessa mano che appuntava con la perizia del mestiere le informazioni d’archivio, trascriveva i verbali del coordinamento per l’autodeterminazione, conservava volantini, elaborava iniziative politiche, prendeva appuntamento con il pediatra e componeva poesie. Cose che non potevano essere del tutto escluse dal discorso.

«Leggevo e difficile mi sembrava definire il limite, certo ma non facilmente riconoscibile, fra privato e personale, nell’accezione appresa nel mio collettivo di autocoscienza, del privato come luogo dell’intimità, del personale come luogo della politica; difficile decidere che alcune cose private volevo considerarle personali, da esporre ad una riflessione che varcasse i confini della mia mente.
Leggevo, e una presenza costante affiorava tra le pagine: le altre donne, le mie compagne di strada, interlocutrici e misura di tutta questa storia» (p. 10).

Se per anni, dunque, la studiosa esperta non aveva permesso alla propria immaginazione storica di oltrepassare la soglia della disciplina, “dopo il femminismo” quell’atteggiamento prudente divenne impossibile da sostenere. In virtù della ritrovata capacità di immaginare i quesiti da porre a quella storia diventarono altri. Cosa aveva pensato il canonico De Cosmi sul letto di morte, vedendosi attorniato da amici e nemici? Si era speso affinché fosse concesso anche alle ragazze l’accesso all’istruzione nelle regie scuole normali. Come aveva reagito quando il re non aveva neppure risposto alla sua lettera? Soprattutto, che fine ha fatto Caterina, la nipote del canonico? Quando fu ormai chiaro che la riforma non sarebbe stata attuata, cosa ne è stato di lei?
La donna rinata al femminismo intravede risposte. La storia però ha bisogno di legittimità storiografica conferita dalle evidenze d’archivio, la storica è costretta a fermarsi: «So adesso che la forma della fonte definisce uno spazio di pensiero/potere pensato da un genere solo, per l’efficienza, per la trasmissione di un ordine, per una battaglia, per un complotto, per un’utopia anche. Senza residui. L’essenziale. Essenziale di che?» (p. 146).
Nei meandri di una essenzialità da altri costruita, Caterina scompare. Riapparirà altrove, sotto altre forme (il minuto popolo), ma intanto la sua scomparsa è diventata inaccettabile ed Emma trova il coraggio di scriverlo, lo scrive: «[…] là dove è introvabile una traccia di memoria femminile io perdo il senso e il piacere della storia. Là dove anche l’eco non risuona, io non parlo» (p.188).
Così la difficile rinascita è completa e spudorata.

«Sono uscita da una contraddizione muta tra femminismo e storia forzando la barriera del pudore, poiché è spinto dalla spudoratezza quel salto a pugni stretti che vince la paura di esistere senza padri: oggi è possibile. Seppure con difficoltà, la pendolarità tra politica e cultura di cui si sostanzia la condizione intellettuale delle donne, rompe la rigidità, la parcellizzazione, l’omologazione proprie di un’intellettualità emancipata, restituisce la cifra di un’esperienza di genere in cui la cultura non ci basta più, e la politica delle donne ci dà respiro, coscienza, identità» (p. 13).

Un “salto a pugni stretti” per mettere in discussione tutto quanto non prevede la libertà femminile quale condizione imprescindibile, poiché conquistarla è stato tutt’altro che facile.

«Più difficile è stato fare esperienza della libertà, possederne un’immagine femminile […] Poi, le donne. Tutti quei visi. I corpi in gioco. La libertà femminile – la mia con la loro – mi sorprese dapprima, convinta di possederla tutta intera. Non prevista invece nei libri di storia che definivano il mio mestiere, avvertii – come se mai prima avessi letto – un insopportabile disagio di fronte a quelle pagine, che opache e mute mi apparvero della sola cosa che ormai cercavo, la libertà incarnata in un corpo di donna, la radice del mio senso della storia […] Libertà Uguaglianza Fraternità, parole astratte. Era la mia libertà non prevista a svuotare di senso la gloriosa triade, della quale la prima parola – libertà – dava o non dava alle altre due il senso cercato» (p. 172-173).

Qui finisce il testo storiografico. Il libro è tutto questo, ma non solo. Il suo completamento ha avuto bisogno di molto altro.

“Uguaglianza militante, lavoro emancipato, maternità, femminismo, differenza”, ATTRITO. Queste le parole chiave attraverso cui indagare I Lumi e il cerchio. Letto e riletto, percorso in maniera disordinata, cominciando ogni volta da un capitolo diverso. Appunti sparsi, tanti. Impossibile usarli tutti. Il cerchio racconta che il femminismo delle donne meridionali ha una cifra in più, perché esse non sono nate emancipate. Descrive la maternità, come apprendistato alla cittadinanza: un esercizio corporeo di democrazia. Restituisce la memoria della sua esistenza attraverso i volti e i nomi di quante lo hanno abitato. Onora la madre, tutte le madri.

Gatta paziente
muso
rosa di luna
Nannina
ricordi il tuo primo gattino
lo sgomento e la fuga
precipitosa
nel mio grembo
di ostetrica di gatti improvvisata?
Quello fu onore grande:
il tuo secondo figlio
accolto
tra le mie cosce calde
scambio materno – complice
di sensazioni uguali
originarie (p. 167)

Elogia la vita. Difende la terra. Rifiuta guerra e violenza.



L’autrice sa di essere stata fortunata:

«Se non mi fossi trovata “naturalmente” davanti a quel lavello, se non fossi diventata per due volte madre, forse non avrei sentito così forte e irresistibile il sonoro del femminismo, che fu come la campana della ricreazione a scuola, liberatoria» (p. 206).




I Lumi e il cerchio è un libro denso. A tratti nero come una notte senza stelle, a tratti accecante come il sole sul cemento. Pungola. Interroga il presente. Alle nuove generazioni chiede: «Quale può essere oggi il senso della liberazione, e rispetto a quale emancipazione, se questa è così fragile e precaria? (p. 219)». Accenna una risposta e sembra quasi giocare a nascondino in un luogo separato, il bozzolo dal quale usciranno variopinte farfalle.

«La mia idea è che il separatismo femminile e maschile, come pratica politica, abbia oggi un’antica e nuova ragione d’essere, perché consente l’emersione dalla reciproca parzialità dei generi. Solo dopo. Dopo aver riflettuto separatamente, ci si potrà incontrare su quella terza terra tra confini, costruita da relazioni tra donne e uomini autocoscienti: perché l’utopia è sempre qui e ora, e la memoria può anche essere leggera “come il profumo di glicine da un giardino lontano”» (p. 224).

Riletto, ancora una volta, piango. Un pianto di gioia, liberatorio, poiché parla di me, parla anche a me. Dice che «la povertà del sapere dei padri, misurabile in termini di qualità della vita e di felicità sta lì a ricordarci di non avere paura né complessi di inferiorità» (p. 13). Esorta ad assumersi la responsabilità di essere un soggetto tutto intero, senza scissione tra testa e corpo. Spinge a cercare le tracce di Caterina per liberarla dall’oblio. E mi affretto lungo ponte Matteotti ché la ricreazione sta già suonando!
MGrazia

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