Con questa recensione inauguriamo
la Biblioteca di wedwellinpossibility con l’invito a leggere e rileggere,
cominciando da Emma Baeri, I
Lumi e il cerchio. Una esercitazione di storia,
Soneria Mannelli, Rubbettino, 2008, 230 p., (prima edizione Editori Riuniti,
1992).
I Lumi e il cerchio è un saggio di storiografia, almeno in parte. Del
saggio storiografico mantiene lo stretto rapporto con la fonte, riveduto e
corretto. È un’esercitazione di storia – come chiarisce sin dal titolo
l’autrice medesima –, una storia che per essere raccontata necessita della
ricostruzione di molte altre storie. È una biografia ed è anche una raccolta
di poesie.
La narrazione dunque si svolge su
più piani, passando da un genere all’altro. I passaggi seppure a volte impervi
non risultano mai stonati o disomogenei, l’armonia ne è garantita dal ricorso
ad un registro nuovo. Una scrittura di genere, de-generata e ri-generata da una
donna scrivente che si riconosce tutta intera.
Il testo è infatti tutto
costruito intorno all’elaborazione di una rinascita, quella di una donna,
meridionale, storica di professione, esperta di storia moderna, che incontra il
femminismo.
«Tempo, memoria, utopia, identità erano parole di
gusto nuovo […] Due grandi esperienze fondavano questa epifania, il collettivo
di autocoscienza e il coordinamento per l’autodeterminazione: il sapere delle
pagine che seguono ha questa origine chiara, i cerchi delle donne, ché questa è
l’immagine del nostro stare insieme fissa nella mia mente. Il dono della parola
restituita dieci, cento volte, il dono del silenzio pure. Nel collettivo il
tempo si era fermato, l’utopia era il presente, la memoria era corta quanto la
nostra identità: noi eravamo la storia. La transizione tra questi due tempi fu
lavoro duro del gruppo politico, il coordinamento per l’appunto, spazio di
confine in cui scoprimmo che i tempi delle donne non reggevano l’impatto coi
tempi della realtà, che l’utopia si rifugiava di nuovo nel tempo e nello spazio
come ci avevano insegnato, che la memoria doveva recuperare l’emancipazione,
l’identità il conflitto» (p. 11).
La contaminazione della vita che
prende corpo nel cerchio stride con le “convenienze” dell’educazione e anche
con quelle del mestiere. Di questo l’autrice prende atto quando, nel 1986,
cominciando a ripercorrere gli appunti raccolti in anni di studio sul canonico
De Cosmi, direttore delle regie scuole normali, non può fare a meno di
constatare la freddezza di quelle note. «[…] il senso della realtà era
prudentemente espunto perché oltremodo sconveniente, come sconveniente era il
corpo e i suoi discorsi» (p.121). Eppure quelle note risultavano contaminate.
La stessa mano che appuntava con la perizia del mestiere le informazioni
d’archivio, trascriveva i verbali del coordinamento per l’autodeterminazione,
conservava volantini, elaborava iniziative politiche, prendeva appuntamento con
il pediatra e componeva poesie. Cose che non potevano essere del tutto escluse
dal discorso.
«Leggevo e difficile mi sembrava definire il limite,
certo ma non facilmente riconoscibile, fra privato e personale, nell’accezione
appresa nel mio collettivo di autocoscienza, del privato come luogo
dell’intimità, del personale come luogo della politica; difficile decidere che
alcune cose private volevo considerarle personali, da esporre ad una
riflessione che varcasse i confini della mia mente.
Leggevo, e una presenza costante affiorava tra le
pagine: le altre donne, le mie compagne di strada, interlocutrici e misura di
tutta questa storia» (p. 10).
Se per anni, dunque, la studiosa
esperta non aveva permesso alla propria immaginazione storica di oltrepassare
la soglia della disciplina, “dopo il femminismo” quell’atteggiamento prudente
divenne impossibile da sostenere. In virtù della ritrovata capacità di
immaginare i quesiti da porre a quella storia diventarono altri. Cosa aveva
pensato il canonico De Cosmi sul letto di morte, vedendosi attorniato da amici
e nemici? Si era speso affinché fosse concesso anche alle ragazze l’accesso all’istruzione
nelle regie scuole normali. Come aveva reagito quando il re non aveva neppure
risposto alla sua lettera? Soprattutto, che fine ha fatto Caterina, la nipote
del canonico? Quando fu ormai chiaro che la riforma non sarebbe stata attuata,
cosa ne è stato di lei?
La donna rinata al femminismo
intravede risposte. La storia però ha bisogno di legittimità storiografica
conferita dalle evidenze d’archivio, la storica è costretta a fermarsi: «So
adesso che la forma della fonte definisce uno spazio di pensiero/potere pensato
da un genere solo, per l’efficienza, per la trasmissione di un ordine, per una
battaglia, per un complotto, per un’utopia anche. Senza residui. L’essenziale.
Essenziale di che?» (p. 146).
Nei meandri di una essenzialità
da altri costruita, Caterina scompare. Riapparirà altrove, sotto altre forme (il
minuto popolo), ma intanto la sua scomparsa
è diventata inaccettabile ed Emma trova il coraggio di scriverlo, lo scrive: «[…]
là dove è introvabile una traccia di memoria femminile io perdo il senso e il
piacere della storia. Là dove anche l’eco non risuona, io non parlo» (p.188).
Così la difficile rinascita è
completa e spudorata.
«Sono uscita da una contraddizione muta tra femminismo
e storia forzando la barriera del pudore, poiché è spinto dalla spudoratezza
quel salto a pugni stretti che vince la paura di esistere senza padri: oggi è
possibile. Seppure con difficoltà, la pendolarità tra politica e cultura di cui
si sostanzia la condizione intellettuale delle donne, rompe la rigidità, la parcellizzazione,
l’omologazione proprie di un’intellettualità emancipata, restituisce la cifra
di un’esperienza di genere in cui la cultura non ci basta più, e la politica
delle donne ci dà respiro, coscienza, identità» (p. 13).
Un “salto a pugni stretti” per
mettere in discussione tutto quanto non prevede la libertà femminile quale
condizione imprescindibile, poiché conquistarla è stato tutt’altro che facile.
«Più difficile è stato fare esperienza della libertà,
possederne un’immagine femminile […] Poi, le donne. Tutti quei visi. I corpi in
gioco. La libertà femminile – la mia con la loro – mi sorprese dapprima,
convinta di possederla tutta intera. Non prevista invece nei libri di storia
che definivano il mio mestiere, avvertii – come se mai prima avessi letto – un
insopportabile disagio di fronte a quelle pagine, che opache e mute mi
apparvero della sola cosa che ormai cercavo, la libertà incarnata in un corpo
di donna, la radice del mio senso della storia […] Libertà Uguaglianza
Fraternità, parole astratte. Era la mia libertà non prevista a svuotare di
senso la gloriosa triade, della quale la prima parola – libertà – dava o non
dava alle altre due il senso cercato» (p. 172-173).
Qui finisce il testo
storiografico. Il libro è tutto questo, ma non solo. Il suo completamento ha
avuto bisogno di molto altro.
“Uguaglianza militante, lavoro
emancipato, maternità, femminismo, differenza”, ATTRITO. Queste le parole
chiave attraverso cui indagare I Lumi e il cerchio. Letto e riletto, percorso in maniera disordinata,
cominciando ogni volta da un capitolo diverso. Appunti sparsi, tanti.
Impossibile usarli tutti. Il cerchio racconta che il femminismo delle donne meridionali ha una cifra in
più, perché esse non sono nate emancipate. Descrive la maternità, come apprendistato
alla cittadinanza: un esercizio corporeo di democrazia. Restituisce la memoria
della sua esistenza attraverso i volti e i nomi di quante lo hanno abitato.
Onora la madre, tutte le madri.
Gatta paziente
muso
rosa di luna
Nannina
ricordi il tuo primo gattino
lo sgomento e la fuga
precipitosa
nel mio grembo
di ostetrica di gatti improvvisata?
Quello fu onore grande:
il tuo secondo figlio
accolto
tra le mie cosce calde
scambio materno – complice
di sensazioni uguali
originarie (p.
167)
Elogia la vita. Difende la terra.
Rifiuta guerra e violenza.
L’autrice sa di essere stata
fortunata:
«Se non mi fossi trovata “naturalmente” davanti a quel
lavello, se non fossi diventata per due volte madre, forse non avrei sentito
così forte e irresistibile il sonoro del femminismo, che fu come la campana
della ricreazione a scuola, liberatoria» (p. 206).
I Lumi e il cerchio è un libro denso. A tratti nero come una notte senza
stelle, a tratti accecante come il sole sul cemento. Pungola. Interroga il
presente. Alle nuove generazioni chiede: «Quale può essere oggi il senso della
liberazione, e rispetto a quale emancipazione, se questa è così fragile e
precaria? (p. 219)». Accenna una risposta e sembra quasi giocare a nascondino
in un luogo separato, il bozzolo dal quale usciranno variopinte farfalle.
«La mia idea è che il separatismo femminile e
maschile, come pratica politica, abbia oggi un’antica e nuova ragione d’essere,
perché consente l’emersione dalla reciproca parzialità dei generi. Solo dopo.
Dopo aver riflettuto separatamente, ci si potrà incontrare su quella terza
terra tra confini, costruita da
relazioni tra donne e uomini autocoscienti: perché l’utopia è sempre qui e ora,
e la memoria può anche essere leggera “come il profumo di glicine da un
giardino lontano”» (p. 224).
Riletto, ancora una volta,
piango. Un pianto di gioia, liberatorio, poiché parla di me, parla anche a me.
Dice che «la povertà del sapere dei padri, misurabile in termini di qualità
della vita e di felicità sta lì a ricordarci di non avere paura né complessi di
inferiorità» (p. 13). Esorta ad assumersi la responsabilità di essere un
soggetto tutto intero, senza scissione tra testa e corpo. Spinge a cercare le
tracce di Caterina per liberarla dall’oblio. E mi affretto lungo ponte Matteotti ché la ricreazione sta già suonando!
MGrazia
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