Feminism
across generation: have your say
Scelgo di ripubblicare qui parte di un intervento di qualche
anno fa (apparso su ServerDonne – www.women.it
- nel 2006). Come periodicamente è accaduto in particolare nell’ultimo
quindicennio, in quella occasione si era
riaccesa una breve fiammata di confronto sulla difficoltà di stare nel
femminismo per donne di generazioni diverse; in particolare attorno alla
precarietà di vita e di lavoro. La ‘grande crisi’ non c’era ancora, ma come
diventa per me ogni giorno più evidente, questa non ha cambiato la sostanza di
una condizioni che già vivevamo sulla nostra pelle da tempo. In questo
intervento ritrovo alcune delle motivazioni che
mi hanno spinto a lavorare al progetto di un glossario delle parole nelfemminismo italiano che pubblichiamo su questo blog.
Spesso provo nei confronti delle parole una grande
stanchezza, un sentimento che non so altrimenti nominare e che prende la forma
di un desiderio struggente di silenzio e solitudine, reali e metaforici, di
vedermi crescere qualcosa fra le mani, un oggetto materiale, per quanto piccolo
e umile, ma muto, ovvero che parli da sé: che so, un vaso, una coperta, una
pianta. Coltivare un orto, contare i giorni di pioggia e quelli di sole,
osservare il cielo.
Ma sono qui. Le parole sono state tanta parte della mia vita sinora, e una
presa di parola è necessaria. Perché non conosco ancora altro modo di
esorcizzare davvero una pena se non condividendola, e, quindi, scrivendo.
Dire allora. Intanto, che tutte noi, “giovani” (che confusione, vi
assicuro, essere una giovane donna a quarant’anni, che beffa, a volte, quando
ti senti il futuro scivolato fra le mani senza mai agguantare almeno uno straccio
di “maturità”, sempre dietro l’angolo, sempre un po’ più in là) e “vecchie”
viviamo dentro un tempo storico che agisce non solo sopra e fuori di noi, ma
anche dentro di noi, ci attraversa: processi e conflitti e che i conflitti
fanno male, producono un dolore autentico e profondo. Nessun “determinismo”,
credetemi, piuttosto, una presa di coscienza.
E’ quasi paradossale che proprio fra noi, che abbiamo elaborato e fatto nostra
una cultura e una tradizione politica di libertà e di responsabilità, di
relazione con l’altra e con l’altro, contrapponendola alla mortifera riduzione
ad uno, noi, che ci siamo radicate nella differenza e che nello scarto
ontologico e comunicativo che essa produce abbiamo visto il germe di una
diversa razionalità non oppressiva, siamo così in difficoltà ad affrontare il
dolore quando il conflitto si genera nella diversa esperienza generazionale di
donne di età diverse che in questa cultura si riconoscono e per essa hanno
lavorato.
Davvero allora può servire riconoscere fino in fondo anche al femminismo la
sua dimensione nel tempo storico. Non tanto per scriverne la storia, come
si sta autorevolmente e utilmente facendo e ancor più spero si farà in futuro.
E ancor meno per dichiararne chiusa l’esperienza e morte le radici. Ma quanto
piuttosto per arricchirne i nessi e le dimensioni nel tempo, per collocarlo in
quello della specialissima esperienza di una generazione e riconoscere la
relazione con quelle successive e quelle che verranno. E per capire insieme, se
possibile, come e perché, in questo tempo storico, si è rotto un patto fra
generazioni. Un patto fra generazioni di uomini e un patto fra generazioni di
donne, tutto interno ad una cultura molto maschile: quella del progresso, del
benessere illimitato che avanza, di un miglioramento senza fine e senza ritorno
delle condizioni materiali di vita.
Certo, chi se non le donne e il loro pensiero hanno prodotto l’etica del limite
e della responsabilità, quando è toccato vedere quanto la scienza ci metteva di
fronte ai nostri limiti? Certo, chi se non le donne e il loro pensiero hanno
sempre saputo e tenuto conto della difficile materialità dei corpi sessuati,
del dolore di nascere e di morire, del vincolo forte di relazioni incarnate e
non solo “virtuali”? Eppure, per quello che riguardava le aspettative, le
proiezioni di sé e sulle generazioni future, insensibilmente, in modo
evidentemente così difficile da decostruire, tutte abbiamo vissuto
dell’illusione e della pretesa dell’illimitato progresso, e dello scacco
personale di fronte all’incapacità di agguantare il proprio posto nel mondo.
La paura mangia l’anima, recita un proverbio arabo. Io odio la paura che
ogni giorno mi mangia l’anima. L’ansia che mi toglie tempo e coraggio di
mettere in campo visioni. Sono qui,
costretta a pensare ogni giorno, ogni ora che passa a che sarà di me, a che
sarà di mia figlia a cui nulla neppure di quello che è stato garantito a me
portò garantire, figuriamoci immaginare che lei possa avere un giorno ciò che
io non ho avuto, come è stato per le generazioni che ho immediatamente dietro
le spalle. Ci è stata spesso rimproverata la nostra fragilità, intellettuale ed
esistenziale, la nostra incapacità a diventare un soggetto politico. Per tanti
versi è vero. Così vero che ho dovuto cominciare a pensare che non potesse
essere solo il frutto della mia privatissima inadeguatezza, e di quella delle
donne che mi stanno intorno. Di fronte a questo giudizio, ogni richiamo a
questa precarietà che ci soffoca e ci umilia suona come una giustificazione, lo
so. Ma la precarietà proprio questo produce, o, in senso ancora più forte,
proprio questo serve a produrre. Forse è da qui che, tutte, dovremo ripartire a
capire. Da noi. Un ripartire da sé declinato nella verità dei nostri limiti ma
anche in quella del tempo storico che viviamo.
Paola
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