Quando sono la nata i miei
rimasero delusi: naturalmente volevano un maschio, che perpetuasse il nome
della famiglia e quello del nonno. Il nome del nonno – Paolo- me lo diedero
ugualmente. Non so se fu di buon auspicio: il nonno era analfabeta, bracciante
a giornata nelle campagne emiliane, ma, così raccontava la mitologia familiare,
grazie alla sua caparbietà, passione politica e straordinaria intelligenza,
aveva imparato da solo a leggere e a scrivere, copiando faticosamente i versi
del Paradiso di Dante su registri inutilizzati dello zuccherificio. Il suo
slancio di emancipazione attraverso il sapere non contemplava le donne, non
saprò mai (morì nel 1945) che cosa avrebbe pensato del fatto che sarei stata
io, una femmina, fra i numerosi nipoti, la prima a prendere una laurea.
Molto presto, quasi bambina, ho
sviluppato un certo amore per il sapere. Ancora oggi non so dire esattamente a
quale stringente esigenza interiore risponda, se non a quella di una grande
curiosità. La scuola mi è sempre piaciuta. Una specie di bella avventura, in
cui ogni tanto divagavo più o meno felicemente, ma che non mi costava
sacrificio e non mi faceva troppo deviare dal primitivo amore per la scoperta e
l'apprendimento. Il travolgente boom economico che nel vorticoso giro di una
manciata di anni aveva strappato i miei genitori dalla campagna e li aveva
catapultati in una metropoli industriale, frenava dolorosamente. Nell’aspro
scontro sociale degli anni settanta fioriva, nonostante tutto, una straordinaria
creatività politica e intellettuale.
Non ho fatto scuole eccezionali;
piuttosto, buone scuole pubbliche. Nella prima metà degli anni ottanta ho
frequentato un buon liceo classico, una scuola che solo vent'anni prima sarebbe
stata totalmente fuori non solo della portata, ma anche degli orizzonti di una
famiglia della mia estrazione sociale. L'ho scelta io perché mi piaceva. Il lavoro
sarebbe venuto, i libri, lo studio, contavano di più, eravamo bene addentro nel
ventesimo secolo! I miei genitori, più o meno efficacemente, disapprovavano. Saggiamente, mi avrebbero preferita
ragioniera.
Ho frequentato un'università dai
costi più che ragionevoli e dalle molte contraddizioni. Fra noi, in quegli anni
di dilagante disoccupazione intellettuale - il precariato a vita pronto dietro l'angolo - si diceva che il pezzo di
carta non contava nulla, che si studiava per la propriacrescita personale e intellettuale. Gli yuppies,
pallidi precursori dell'odierna plutocrazia crudele e rapace (che pare uscita
dritta da un quadro di Otto Dix), ci facevano un po' ridere e non ci incutevano
timore. I miei genitori seguitavano a disapprovare. Il femminismo, anche quello
conosciuto prestissimo, si ritagliava un suo spazio anche nello studio, via via
sempre più importante, si faceva casa, nella quale, nonostante tutte le
distanze, si poteva abitare.
.
Della festa rutilante in cui il pianeta sembrava immerso, non ho visto molte luci, anzi, ho sperimentato la fatica, l'angoscia, l'umiliazione della precarietà e della povertà. E però, quell'antica idea dellacrescita personale e intellettuale - di cui la scuola e l'università avevano costituto una sorta di piattaforma, un po' traballante e sconnessa, ma reale - resisteva, e negli anni diventava l'unico scudo, il più efficace, da opporre al disagio di essere, di nuovo come tanti della mia generazione, soltanto un'eccedenza, un effetto collaterale, un invisibile scarto di magazzino nella fabbrica del successo e di un futuro senza fine e senza scopo.
Quando è nata mia figlia, neppure per un attimo ho dubitato che il suo percorso potesse giovarsi del mio: di quello che io avevo potuto imparare, a dispetto delle mie origini umili, sul mondo e sul mio essere donna. Qualunque cosa fosse successa, nessuno l'avrebbe privata di una crescita personale e intellettuale in cui non sarebbe stata del tutto sola, al di là di quello che avrei potuto insegnarle io.
Della festa rutilante in cui il pianeta sembrava immerso, non ho visto molte luci, anzi, ho sperimentato la fatica, l'angoscia, l'umiliazione della precarietà e della povertà. E però, quell'antica idea dellacrescita personale e intellettuale - di cui la scuola e l'università avevano costituto una sorta di piattaforma, un po' traballante e sconnessa, ma reale - resisteva, e negli anni diventava l'unico scudo, il più efficace, da opporre al disagio di essere, di nuovo come tanti della mia generazione, soltanto un'eccedenza, un effetto collaterale, un invisibile scarto di magazzino nella fabbrica del successo e di un futuro senza fine e senza scopo.
Quando è nata mia figlia, neppure per un attimo ho dubitato che il suo percorso potesse giovarsi del mio: di quello che io avevo potuto imparare, a dispetto delle mie origini umili, sul mondo e sul mio essere donna. Qualunque cosa fosse successa, nessuno l'avrebbe privata di una crescita personale e intellettuale in cui non sarebbe stata del tutto sola, al di là di quello che avrei potuto insegnarle io.
Oggi so che molto probabilmente
non potrò garantire a mia figlia una istruzione allo stesso livello di quella
che io ho potuto avere. Un buon livello, decente e normale. Perché non avrò mai
i soldi per farlo. Perché quelle scuole decenti, nonostante le mille
contraddizioni, non esisteranno più.
Molti in questi giorni si
affannano a dare lezioni di legalità ai ragazzi che – festosamente e
pacificamente, sinora – occupano le scuole. Ma quale lezione viene dalla
legalità e dalla politica a questi ragazzi senza futuro? Davvero devono
accettare questo stato di cose senza neppure alzare la voce? Che cosa ancora
deve accadere prima che la mia ingrigita generazione di quarantenni,
invecchiata senza rendersene conto nella piaggeria e nell’autoinganno, si renda
conto che la malattia è grave, ed il paziente morto?
Paola
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