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5 marzo 2013

Io, sovversiva


Coltivo la memoria e custodisco le speranze delle donne del 1943.


Dopo le ultime elezioni non ho fatto altro che pensare alla resistenza delle donne. Sarà per il clima da ottobre del '22 che si respira in questi giorni, sarà per la paura di vedere sgretolarsi alcuni puntifermi della mia cittadinanza politica. 
Quello che mi ha sempre colpito delle donne del 1943 - tutte resistenti, anche se non necessariamente partigiane - è stata la loro straordinaria capacità di discernimento. è stato il loro risveglio dopo vent’anni di regime fascista, quando l’otto settembre 1943 con azione eclatante, spontanea e non-organizzata riuscirono a realizzare il più grande travestimento di massa della storia. Quel risveglio non è stato facile né scontato. Ha imposto una scelta, certamente libera ma senza la quale non si sarebbero potuti accettare i rischi connessi alla guerra in corso, maggiori per le donne che non per gli uomini.
Fare i conti con la violenza, agita e subita. Da un lato, l'improvvisa famigliarità con l'uso e il possesso delle armi, dall'altro la cattura e carcerazione in campo di concentramento, oltre che la violenza fisica e sessuale inflitta alle donne con calcolata lucidità nelle carceri fasciste così come a scopo "castale" lungo il passaggio dei fronti (a Cassino come a Sasso Marconi).



Nel rischio di sé, della perdita di sé, quelle donne hanno avuto la forza di parlare di emancipazione e diritti, poiché il campo del possibile doveva apparire loro infinitamente grande.
Dopo la Liberazione il campo del possibile si è richiuso su desideri e aspirazioni con l'affermarsi di una politica fatta per gli uomini e dagli uomini in un trionfo di familismo e paternalismo, che hanno svilito l’azione delle donne e spesso anche la loro memoria. E come sappiamo, le iniziative femministe successive non hanno scalfito la politica del "maschio", anzi si sono avvizzite sulle pari opportunità e lo sterile tentativo di un loro riconoscimento e applicazione.
Nonostante tutto, il voto, quello sì che è stata una conquista delle donne del '43 - a costo della vita!


La mia cittadinanza politica ha l'eco del grattare metallico delle biciclette autarchiche e porta in dote con una matita la speranza di un domani lucente "dove sia libera ogni gioia". La memoria e le speranze delle donne del 1943 stanno tutte lì, in due sottili tratti di lapis - tracciandoli, sovverto. E se non dovesse bastare, resisterò
MGrazia

25 aprile 2012

Ero cresciuta abbastanza per capire quale era la parte sbagliata e scegliere la Resistenza

In genere non amo le date che diventano targhe celebrative, la memoria che si sclerotizza in un plot, le frasi di circostanza, l'ipocrisia delle parole scandite con tono profondo.
Ma amo, amo profondamente questa ricorrenza, amo il 25 aprile.
E il 25 aprile si deve ricordare, dobbiamo ricordarcelo.
Ricordare che per le partigiane e i partigiani la vittoria non era solo la sconfitta del fascismo, la vittoria era il nuovo inizio che quella sconfitta prometteva, permetteva.

Avevo pensato di fare il racconto di tutte le forme di fascismo con cui mi sono scontrata quest'anno, poi ho cambiato idea e ho scelto un piccolo ritratto di una partigiana, Lidia Beccaria Rolfi, di Cuneo, arrestata per una delazione e deportata nel lager di Ravensbrück.


Lidia Beccaria Rolfi*

"Sono di estrazione contadina, ultima di cinque fratelli… Ho avuto un'infanzia serena, libera, senza nocivi condizionamenti familiari…Le prime parole che ho imparato a scrivere sono state «Eia, eia, eia, alalà!», la prima lettura Duce, ti amo, il primo disegno la bandiera e il fascio littorio".
Nata nel 1925, come tanti suoi coetanei, Lidia Beccaria è cresciuta nelle scuole di regime ed è stata educata ad amare il duce. Ricorda di essersi sentita infelice perché la madre si era rifiutata di consegnare la propria fede al regime.
"Eravamo stati allevati, educati, nel clima fascista. Però dal 10 giugno 1940 sei immersa nella guerra e la guerra ti tocca anche a livello familiare", due fratelli di Beccaria sono partiti per il fronte russo, di loro, come di tanti altri, non si hanno notizie.
L'immagine del padre che la schiaffeggia, per la prima ed ultima volta in vita sua, perché tornando da scuola grida "Viva la guerra!", quella della madre che piange di nascosto, fanno scattare in Lidia una seria riflessione su tutte le certezze che fino a quel momento aveva avuto.
"Questi tre anni di guerra che vanno dal '40 al '43 ti mettono di fronte al razionamento, all'oscuramento, ai problemi quotidiani, al furto della tua giovinezza…allora fai il confronto fra quello che ti hanno raccontato prima e la realtà che ti trovi di fronte adesso".
Nel momento in cui ascolta i racconti dei fratelli tornati dalla campagna di Russia, che le spiegano che il vero nemico non è il popolo russo, ma l'esercito tedesco, che aveva ucciso i bambini e fucilato le donne, e che durante la ritirata si era persino rivoltato contro gli italiani, le si rivela a pieno la falsità della propaganda fascista: "Le mie reazioni, anche se sono nella direzione giusta, sono soltanto reazioni istintive alla tragedia della guerra, alle sofferenze che vedo attorno a me, alle morti che hanno colpito i soldati al fronte e i civili in città. Non c'è ancora una presa di coscienza sulla realtà della situazione italiana e sul fascismo. Questa presa di coscienza avverrà molto più tardi".
Conseguito il diploma Lidia riceve la sua prima nomina come insegnante elementare, alla fine del novembre del 1943.
Pochi giorni dopo essersi trasferita a Torrette di Casteldelfino, in Valle Varaita, sede della scuola in cui era stata destinata, riesce a mettersi in contatto con alcuni partigiani della zona e si unisce alla XV Brigata Garibaldi "Saluzzo".
"Ero cresciuta abbastanza per capire quale era la parte sbagliata e scegliere la Resistenza contro i tedeschi e i fascisti".
Di notte, alla luce di un lanternino, monta bombe a mano che nasconde in una cassa sotto il suo letto; di giorno, finite le lezioni, fa la spola tra la valle e Saluzzo.
I primi giorni del marzo del 1944 i fascisti e i tedeschi iniziano i rastrellamenti a tappeto: "Ezio", uno dei partigiani della brigata le ordina di allontanarsi dalle valle perché pullula di spie.
Lidia torna a Mondovì e rientra a Casteldelfino dopo dieci giorni, la sera dell'11 marzo. La mattina del 13 i militi della Guardia Nazionale Repubblicana irrompono nella sua abitazione e la arrestano.
La conducono nell'albergo in cui ha sede il comando di stanza a Sampeyre, dove viene interrogata e torturata per un giorno e una notte.
I prigionieri vengono torturati perché confessino, spesso è impedita loro ogni comunicazione con l'esterno, ma anche i contatti tra prigionieri stessi sono vietati e avvengono clandestinamente.
I racconti delle partigiane arrestate sono in genere privi di ogni accento drammatico, le parole sono misurate anche quando si parla delle sevizie subite e delle minacce di morte.
Le scelte eroiche che spesso si trovano a fare, vengono accennate con naturalezza, come se non fosse possibile comportarsi altrimenti. Ricordo, ad esempio, il racconto di una staffetta che si fa arrestare volontariamente durante un rastrellamento per permettere ai propri compagni di scappare e continuare a combattere e che, parlando dell'accaduto, dice: "Io mi sentivo questo dovere… ecco perché l'ho fatto, proprio spontaneamente".
L'orgoglio per il proprio atteggiamento è evidente, ma è un orgoglio privo di arroganza o di vanità.
Consegnata alla Gestapo, Lidia trascorre dieci giorni nelle carceri giudiziarie di Saluzzo, rinchiusa in un'enorme cella con detenute colpevoli di reati comuni. Infine, la sera del 24, è trasferita alle carceri Nuove di Torino dove resterà reclusa tre mesi.
I mesi di prigionia sono mesi d'incertezza e di paura, Lidia non sa cosa le accadrà, ma non sa neanche quello che sta accadendo all'esterno: "I mesi di carcere sono ossessivi… l'inerzia, l'inattività, sono intollerabili…le uniche possibilità di comunicazione le abbiamo durante i bombardamenti quando ci trasferiscono tutte insieme nel rifugio".
Ecco perché la sera del 25 giugno 1944 la notizia che sarà deportata in Germania "per lavorare", come le viene detto, viene accolta quasi con sollievo.


*Tutti i virgolettati sono tratti dai seguenti libri:
L. Beccaria Rolfi, A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978.
A, Bravo, D. Jalla, La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Franco Angeli, 1986.
Il titolo del post (ripreso infra) è tratto da Consiglio Regionale del Piemonte, ANED, a c. di, La deportazione femminile nei lager nazisti. Convegno internazionale Torino, 20 – 21 ottobre 1994, Milano, Franco Angeli, pag. 159.

Valentina