24 settembre 2012

Per una lettura del libro sul movimento femminista in Italia di Fiamma Lussana

Reading the history of italian feminism by Fiamma Lussana

È ancora difficile e pieno di insidie il rapporto tra storia del femminismo e 'storia generale'. Certo ci sono le difficoltà storiografiche – un movimento che non vuole lasciare memoria, che diffida della carta scritta, che è molecolare e disperso nel suo farsi e nei suoi lasciti – ma il nodo non è soltanto di metodo scientifico. Rimane un nodo squisitamente politico: un movimento che non vuole “morire”, che scavalca allegramente, mutando pelle, le stagioni politiche,  attraversa le cronologie e, nonostante i ripetuti tentativi di confinarlo nell'armadio delle cose dismesse dai favolosi anni settanta, ancora fa resistenza. Attinge questa forza dalla sua stessa radicalità; quella radicalità che “a dispetto del suo furore antisistemico (ma non sarà un poco anche 'grazie'?...) ha in realtà contribuito ben oltre il lungo '68 a illuminare le zone d'ombra e le distorsioni del nostro tempo”; una radicalità che però non supera la crisi politica e sociale innescata  dalla violenza del terrorismo, che mette in crisi irreversibilmente anche “metodi e strategie del movimento”. “Che dopo di allora certo non è morto ma, incalzato da quei tragici eventi, non è riuscito a superare le sue contraddizioni e le sue interne lacerazioni. Ha rimodulato la sua elaborazione scegliendo la riflessione teorica sulla differenza sessuale, che ha arricchito con un nuovo ordine simbolico  l'analisi femminista degli anni ottanta e novanta, ma non ha saputo formulare un progetto politico capace di incorporare le sue diverse anime. Non è riuscito a usare la sua intelligenza teorica per cambiare il mondo”.


Il libro si muove quindi su un crinale difficile: vuole scrivere di storia, e quindi interpretare il femminismo come parte integrante e decisiva della storia del secondo novecento mondiale e italiano, ma si deve confrontare con la sua irriducibilità – di intenzioni e di natura (e così, nella prima parte del libro è come se la storia generale si riprendesse la scena, mentre nella parte conclusiva il diario dei singoli gruppi significativi restituisce quanto sembra collocarsi a fatica nel quadro complessivo) e  con la sua capacità di “contaminazione”: come accade nella vicenda del femminismo sindacale e dei corsi delle 150 ore rivolti alle donne, che il volume ha a mio parere il non trascurabile pregio di ricostruire e approfondire, mostrandone il respiro politico e teorico. “Quella del femminismo sindacale è stata insomma soprattutto una sfida culturale che ha abbattuto pregiudizi, ha cominciato a rimuovere dure e radicate incrostazioni ideologiche, costruendo un ponte ideale con l'universo frastagliato di gruppi e collettivi (…). Per ora perdono le donne, che non sono riuscite a imporre un modello familiare basato su una più giusta divisione dei ruoli e compiti e und adiversa foram di organizzazione del lavoro che, insieme all'uguaglianza dei diritti, sappia riconoscere la differenza femminile. Ma il pensiero delle donne non si è fermato. Negli anni che verranno continuerà a suscitare visioni e suggestioni. Sarà invece il sindacato – e con lui i partiti e l'intero sistema politico – a pagare i costi della voragine sempre più profonda che intanto si è aperta fra la politica e la gente (…). E tutti si portano dietro, donne e uomini, la fatica di vivere in un mondo che, a dispetto dell'era globale che vorrebbe abbattere confini e livellare standard di vita, è sempre più diviso, sempre più ineguale”.
Il fatto è che proprio la  storia  che Lussana fa a parlarci direttamente del nostro presente e non solo come tradizione politica ed eredità culturale: da una parte la radicalità necessaria a pensare ad un diverso ordine simbolico del mondo e quindi a un cambiamento profondo delle relazioni di genere; dall'altra la necessità di tradurre in politiche concrete le istanze di questa radicalità. Cosa può essere perduto e cosa può essere guadagnato in questo difficile e movimentato travaso, che non potrà mai dirsi concluso una volta per tutte, non è – non ancora? Non sarà mai? - questione puramente accademica, di giudizio storiografico.
Nel presente, penso ovviamente al dibattito acceso attorno alle manifestazione del 13 febbraio 2011, o attorno alle questioni del lavoro, del suo valore e del suo significato: da una parte il rifiuto di farsi ingranaggio di un mercato spaventosamente nemico di donne e uomini attraverso retoriche produttiviste e lavoriste, dall'altra i bisogni concreti di welfare, salario, diritti. Solo una sana radicalità può leggerli nella giusta prospettiva; ma non cessano per questo di essere drammaticamente urgenti e drammaticamente reali.
Ben oltre gli anni del movimento “il movimento femminista è la coscienza critica di questi anni. Fin dal suo primo manifestarsi, anche se con accenti diversi nelle sue varie fasi, la sua è una voce contro. Antiegualitaria, antiemancipazionista, antistituzionale. Reagendo all'unanimismo asessuato di un mondo di eguali, la teoria femminista è la scheggia impazzita della cultura dell'eguaglianza e delle pari opportunità che si afferma negli anni settanta”.
Ci resta molto, molto preziosa questa sua "voce contro".

Paola

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