È ancora difficile e pieno di insidie il rapporto tra storia del femminismo e 'storia generale'. Certo ci sono le
difficoltà storiografiche – un movimento che non vuole lasciare memoria, che
diffida della carta scritta, che è molecolare e disperso nel suo farsi e nei
suoi lasciti – ma il nodo non è soltanto di metodo scientifico. Rimane un
nodo squisitamente politico: un movimento che non vuole “morire”, che scavalca
allegramente, mutando pelle, le stagioni politiche, attraversa le cronologie e, nonostante i
ripetuti tentativi di confinarlo nell'armadio delle cose dismesse dai favolosi
anni settanta, ancora fa resistenza. Attinge questa forza dalla sua stessa
radicalità; quella radicalità che “a dispetto del suo furore antisistemico (ma
non sarà un poco anche 'grazie'?...) ha in realtà contribuito ben oltre il
lungo '68 a illuminare le zone d'ombra e le distorsioni del nostro tempo”; una
radicalità che però non supera la crisi politica e sociale innescata dalla violenza del terrorismo, che mette in
crisi irreversibilmente anche “metodi e strategie del movimento”. “Che dopo di
allora certo non è morto ma, incalzato da quei tragici eventi, non è riuscito a
superare le sue contraddizioni e le sue interne lacerazioni. Ha rimodulato la
sua elaborazione scegliendo la riflessione teorica sulla differenza sessuale,
che ha arricchito con un nuovo ordine simbolico
l'analisi femminista degli anni ottanta e novanta, ma non ha saputo
formulare un progetto politico capace di incorporare le sue diverse anime. Non è
riuscito a usare la sua intelligenza teorica per cambiare il mondo”.
Il libro si muove quindi su un crinale difficile: vuole
scrivere di storia, e quindi interpretare il femminismo come parte integrante e
decisiva della storia del secondo novecento mondiale e italiano, ma si deve
confrontare con la sua irriducibilità – di intenzioni e di natura (e così,
nella prima parte del libro è come se la storia generale si riprendesse la
scena, mentre nella parte conclusiva il diario dei singoli gruppi significativi
restituisce quanto sembra collocarsi a fatica nel quadro complessivo) e con la sua
capacità di “contaminazione”: come accade nella vicenda del femminismo
sindacale e dei corsi delle 150 ore rivolti alle donne, che il volume ha a mio parere il non trascurabile pregio di
ricostruire e approfondire, mostrandone il respiro politico e teorico. “Quella del femminismo sindacale è stata insomma soprattutto
una sfida culturale che ha abbattuto pregiudizi, ha cominciato a rimuovere dure
e radicate incrostazioni ideologiche, costruendo un ponte ideale con l'universo
frastagliato di gruppi e collettivi (…). Per ora perdono le donne, che non sono
riuscite a imporre un modello familiare basato su una più giusta divisione dei
ruoli e compiti e und adiversa foram di organizzazione del lavoro che, insieme
all'uguaglianza dei diritti, sappia riconoscere la differenza femminile. Ma il
pensiero delle donne non si è fermato. Negli anni che verranno continuerà a
suscitare visioni e suggestioni. Sarà invece il sindacato – e con lui i partiti
e l'intero sistema politico – a pagare i costi della voragine sempre più
profonda che intanto si è aperta fra la politica e la gente (…). E tutti si
portano dietro, donne e uomini, la fatica di vivere in un mondo che, a dispetto
dell'era globale che vorrebbe abbattere confini e livellare standard di vita, è
sempre più diviso, sempre più ineguale”.
Il fatto è che proprio la
storia che Lussana fa a parlarci
direttamente del nostro presente e non solo come tradizione politica ed eredità culturale: da una parte la radicalità necessaria a pensare ad un diverso
ordine simbolico del mondo e quindi a un cambiamento profondo delle relazioni
di genere; dall'altra la necessità di tradurre in politiche concrete le istanze
di questa radicalità. Cosa può essere perduto e cosa può essere guadagnato in
questo difficile e movimentato travaso, che non potrà mai dirsi concluso una
volta per tutte, non è – non ancora? Non sarà mai? - questione puramente accademica, di giudizio storiografico.
Nel presente, penso ovviamente al dibattito acceso attorno
alle manifestazione del 13 febbraio 2011, o attorno alle questioni del lavoro,
del suo valore e del suo significato: da una parte il rifiuto di farsi
ingranaggio di un mercato spaventosamente nemico di donne e uomini attraverso
retoriche produttiviste e lavoriste, dall'altra i bisogni concreti di welfare,
salario, diritti. Solo una sana radicalità può leggerli nella giusta
prospettiva; ma non cessano per questo di essere drammaticamente urgenti e
drammaticamente reali.
Ben oltre gli anni del movimento “il movimento femminista è la coscienza critica di questi
anni. Fin dal suo primo manifestarsi, anche se con accenti diversi nelle sue
varie fasi, la sua è una voce contro. Antiegualitaria, antiemancipazionista,
antistituzionale. Reagendo all'unanimismo asessuato di un mondo di eguali, la
teoria femminista è la scheggia impazzita della cultura dell'eguaglianza e
delle pari opportunità che si afferma negli anni settanta”.
Ci resta molto, molto preziosa questa sua "voce contro".
Paola
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