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4 ottobre 2012

Il corpo come prassi rivoluzionaria. Rileggere Antologaia. Sesso genere e cultura degli anni Settanta (Milano, Il dito e la luna, 2007) di Porpora Marcasciano


Leggendo di recente il saggio introduttivo di Elda Guerra al volume Partire dal corpo. Laboratorio politico di donne e uomini (Milano, Essediesse, 2011), sono rimasta piuttosto colpita dal breve passaggio in cui l’autrice scrive:

«gli anni Settanta sembrano consegnati ad una fine […] i due grandi lutti sono […] la perdita della parola autocoscienziale […], l’allontanamento dal corpo» (p. 26).

In questo blog abbiamo cominciato ad affrontare la questione della trasmissione/eredità del femminismo, ma perplime sempre vedere come nella parabola di movimento descritta dagli anni Settanta, il femminismo sembra aver prodotto una rivoluzione, certo, ma chiusa su se stessa, partecipata e agita solo da quante hanno fatto parte di quell’esperienza, alla fine della quale, con lo spostamento dell’attenzione sul pensiero della differenza ad esempio, altri corpi conquistano uno spazio di protagonismo e quindi, per ciò stesso, il primo femminismo svanisce.
Al volgere degli anni Ottanta, si apre una fase nuova, popolata dagli “altri corpi”, che fanno un percorso “altro” (“a parte da”) e in cui sembra mancare una contaminazione con l’esperienza precedente, poiché, per l’appunto, il femminismo è morto senza lasciare eredi, se non delle alterità vagamente (e confusamente) riconosciute. è il palesarsi dell’esperienza femminista come qualcosa di chiuso che genera preoccupazione, non solo in riferimento all’esperienza specifica, ma anche perché un tale procedere misconosce inevitabilmente tutto quello che è entrato in contatto con quell’esperienza, per poi avviarsi ad un percorso proprio, certo non “altro” e neppure “a parte da”.


Ecco quindi l’esigenza di ritornare su questo testo. 
Antologaia, in prima lettura, restituisce attraverso la biografia politica di Porpora Marcasciano, che è di fatto una biografia collettiva, il percorso intenso e tragico che porta dal FUORI (Fronte Unitario Omosessuali Rivoluzionari Italiani) al MIT (Movimento Identità Transessuale).
Esso attraversa tutto il movimento di critica radicale della società proprio degli anni Settanta per arrivare ad una presa di coscienza identitaria, che si fa politica nel decennio successivo.
È nelle fila del movimento studentesco di sinistra, infatti, che comincia a farsi largo la riflessione di Porpora, la quale intuisce che la contestazione, pur avendo permesso a tanti di mettersi in discussione “non ha assolutamente riguardato il proprio essere maschio”(p. 21). Nonostante ciò, pur nella consapevolezza che gli slogan dei compagni mascheravano, e neppure tanto bene, quel maschilismo patriarcale mai messo in discussione, la rete della sinistra extraparlamentare permise una maggiore visibilità a quelle che erano le iniziative e le riflessioni emergenti nella comunità omosessuale, in quegli anni in fase di organizzazione (p. 105).
Non era però uno spazio sufficientemente accogliente.
Le influenze provenienti da altre anime di quel movimento, il femminismo per esempio, portano Porpora a manifestare il bisogno di maggiore presenza di sé nell’agire politico:

«sentivo il bisogno di incanalare la mia esperienza dentro una lotta di liberazione più generale, riuscivo ad inserire il processo di liberazione nella mia esperienza personale e nella mia omosessualità, ma non riuscivo a fare il contrario e cioè proporre la mia omosessualità come prassi rivoluzionaria» (p. 52).

Ecco, quindi, che il corpo riappare, facendosi perno di un’intera struttura riflessiva:

«mi sento nomade, trasversale, ibrido, extraterritoriale, l’unica certezza è il mio corpo […], terminale della mia felicità perché punto di partenza e punto di arrivo di bisogni e desideri» (p. 15).

Questo scrive Porpora, riportando al centro della sua riflessione politica il corpo e con esso la parola autocoscienzale. La pratica femminista non è qui solo una eco lontana. La contaminazione è indiscutibile e l’autrice non la nega, anche se è costretta a constare come le femministe si opposero alla presenza dei travestiti nelle proprie fila. Finanche nei cortei, come accadde a Bologna nel ’77 durante la manifestazione contro la repressione, poiché per le femministe i travestiti rappresentavano “un modello femminile vetusto complice del patriarcato” (p. 88).



Con la presa di coscienza si innalza pian piano il livello di autoaccettazione, determinando quell’aumento dell’autotisma, “che tradotta in termini politici, si chiama “orgoglio” (p.116)”. Con la conquista orgogliosa dell’identità si avviano una serie di iniziative pubbliche, che alla fine degli anni Settanta sembrano subire una accelerazione decisiva. 



È  del maggio 1979 la nascita del Collettivo Narciso, in novembre dello stesso anno la prima manifestazione gay a Pisa, quindi il Pride di Bologna nel giugno 1980 e due anni dopo l’assegnazione del Cassero di Porta Saragozza…
Non si tratta però di una marcia trionfale. Enormi sono stati i costi e continua la fatica per affermare quel principio di nuova cittadinanza, con tutti i diritti che essa richiede, di cui il MIT si è fatto portavoce.



Nell’intenso e tragico percorso indicato all’inizio, tra lustrini e polvere di palcoscenico, comizi improvvisati e incontri organizzativi, è stato possibile imbattersi in momenti performativi ed in improbabili processioni di imperatrici, nobildonne … e vaghebionde. Non sono mancati gli incontri occasionali e quelli a pagamento; le aggressioni; le riflessioni di Mario Mieli; le canzoni impegnate di Claudio Lolli; e la morte, arrivata sì tragicamente con le vittime della “peste gay”.
Eppure, in tutto questo, non è venuta meno né la parola autocoscienziale

«La coscienza è la base necessaria per un sano rapporto con il mondo e con se stessi: bisognerebbe partire da essa per fare un sano e favoloso coming out […]» p.118;

né l’importanza della centralità del corpo

«[…] il corpo non esiste più nella sua totalità ma in singole parti scomposte. Forse non ce ne rendiamo bene conto […], ma i corpi sono super controllati, ingabbiati, predefiniti, sterilizzati. […] Di questo passaggio ne ha coscienza solo chi è riuscito a mantenere una memoria non solo psichica, ma soprattutto fisica, chi riesce ancora a ricordare gli odori, i sapori, i colori e la sensualità del corpo reale […]» p. 157.

È nel protagonismo indiscusso del corpo, nel suo essere mutante o in “via di liberazione” – come scrive nella postfazione Nicoletta Poidimani –, che Antologaia testimonia come correre il rischio della contaminazione sia il primo passo per l’affermazione del corpo-soggetto. 
MGrazia

24 settembre 2012

Per una lettura del libro sul movimento femminista in Italia di Fiamma Lussana

Reading the history of italian feminism by Fiamma Lussana

È ancora difficile e pieno di insidie il rapporto tra storia del femminismo e 'storia generale'. Certo ci sono le difficoltà storiografiche – un movimento che non vuole lasciare memoria, che diffida della carta scritta, che è molecolare e disperso nel suo farsi e nei suoi lasciti – ma il nodo non è soltanto di metodo scientifico. Rimane un nodo squisitamente politico: un movimento che non vuole “morire”, che scavalca allegramente, mutando pelle, le stagioni politiche,  attraversa le cronologie e, nonostante i ripetuti tentativi di confinarlo nell'armadio delle cose dismesse dai favolosi anni settanta, ancora fa resistenza. Attinge questa forza dalla sua stessa radicalità; quella radicalità che “a dispetto del suo furore antisistemico (ma non sarà un poco anche 'grazie'?...) ha in realtà contribuito ben oltre il lungo '68 a illuminare le zone d'ombra e le distorsioni del nostro tempo”; una radicalità che però non supera la crisi politica e sociale innescata  dalla violenza del terrorismo, che mette in crisi irreversibilmente anche “metodi e strategie del movimento”. “Che dopo di allora certo non è morto ma, incalzato da quei tragici eventi, non è riuscito a superare le sue contraddizioni e le sue interne lacerazioni. Ha rimodulato la sua elaborazione scegliendo la riflessione teorica sulla differenza sessuale, che ha arricchito con un nuovo ordine simbolico  l'analisi femminista degli anni ottanta e novanta, ma non ha saputo formulare un progetto politico capace di incorporare le sue diverse anime. Non è riuscito a usare la sua intelligenza teorica per cambiare il mondo”.


Il libro si muove quindi su un crinale difficile: vuole scrivere di storia, e quindi interpretare il femminismo come parte integrante e decisiva della storia del secondo novecento mondiale e italiano, ma si deve confrontare con la sua irriducibilità – di intenzioni e di natura (e così, nella prima parte del libro è come se la storia generale si riprendesse la scena, mentre nella parte conclusiva il diario dei singoli gruppi significativi restituisce quanto sembra collocarsi a fatica nel quadro complessivo) e  con la sua capacità di “contaminazione”: come accade nella vicenda del femminismo sindacale e dei corsi delle 150 ore rivolti alle donne, che il volume ha a mio parere il non trascurabile pregio di ricostruire e approfondire, mostrandone il respiro politico e teorico. “Quella del femminismo sindacale è stata insomma soprattutto una sfida culturale che ha abbattuto pregiudizi, ha cominciato a rimuovere dure e radicate incrostazioni ideologiche, costruendo un ponte ideale con l'universo frastagliato di gruppi e collettivi (…). Per ora perdono le donne, che non sono riuscite a imporre un modello familiare basato su una più giusta divisione dei ruoli e compiti e und adiversa foram di organizzazione del lavoro che, insieme all'uguaglianza dei diritti, sappia riconoscere la differenza femminile. Ma il pensiero delle donne non si è fermato. Negli anni che verranno continuerà a suscitare visioni e suggestioni. Sarà invece il sindacato – e con lui i partiti e l'intero sistema politico – a pagare i costi della voragine sempre più profonda che intanto si è aperta fra la politica e la gente (…). E tutti si portano dietro, donne e uomini, la fatica di vivere in un mondo che, a dispetto dell'era globale che vorrebbe abbattere confini e livellare standard di vita, è sempre più diviso, sempre più ineguale”.
Il fatto è che proprio la  storia  che Lussana fa a parlarci direttamente del nostro presente e non solo come tradizione politica ed eredità culturale: da una parte la radicalità necessaria a pensare ad un diverso ordine simbolico del mondo e quindi a un cambiamento profondo delle relazioni di genere; dall'altra la necessità di tradurre in politiche concrete le istanze di questa radicalità. Cosa può essere perduto e cosa può essere guadagnato in questo difficile e movimentato travaso, che non potrà mai dirsi concluso una volta per tutte, non è – non ancora? Non sarà mai? - questione puramente accademica, di giudizio storiografico.
Nel presente, penso ovviamente al dibattito acceso attorno alle manifestazione del 13 febbraio 2011, o attorno alle questioni del lavoro, del suo valore e del suo significato: da una parte il rifiuto di farsi ingranaggio di un mercato spaventosamente nemico di donne e uomini attraverso retoriche produttiviste e lavoriste, dall'altra i bisogni concreti di welfare, salario, diritti. Solo una sana radicalità può leggerli nella giusta prospettiva; ma non cessano per questo di essere drammaticamente urgenti e drammaticamente reali.
Ben oltre gli anni del movimento “il movimento femminista è la coscienza critica di questi anni. Fin dal suo primo manifestarsi, anche se con accenti diversi nelle sue varie fasi, la sua è una voce contro. Antiegualitaria, antiemancipazionista, antistituzionale. Reagendo all'unanimismo asessuato di un mondo di eguali, la teoria femminista è la scheggia impazzita della cultura dell'eguaglianza e delle pari opportunità che si afferma negli anni settanta”.
Ci resta molto, molto preziosa questa sua "voce contro".

Paola