Leggendo di
recente il saggio introduttivo di Elda Guerra al volume Partire dal corpo.
Laboratorio politico di donne e uomini
(Milano, Essediesse, 2011), sono rimasta piuttosto colpita dal breve passaggio
in cui l’autrice scrive:
«gli anni Settanta sembrano consegnati ad una
fine […] i due grandi lutti sono […] la perdita della parola autocoscienziale
[…], l’allontanamento dal corpo» (p. 26).
In questo blog
abbiamo cominciato ad affrontare la questione della trasmissione/eredità del femminismo,
ma perplime sempre vedere come nella parabola di movimento descritta dagli anni
Settanta, il femminismo sembra aver prodotto una rivoluzione, certo, ma chiusa su
se stessa, partecipata e agita solo da quante hanno fatto parte di
quell’esperienza, alla fine della quale, con lo spostamento dell’attenzione sul
pensiero della differenza ad esempio, altri corpi conquistano uno spazio di
protagonismo e quindi, per ciò stesso, il primo femminismo svanisce.
Al volgere degli
anni Ottanta, si apre una fase nuova, popolata dagli “altri corpi”, che fanno
un percorso “altro” (“a parte da”) e in cui sembra mancare una contaminazione
con l’esperienza precedente, poiché, per l’appunto, il femminismo è morto senza
lasciare eredi, se non delle alterità vagamente (e confusamente) riconosciute. è il palesarsi dell’esperienza
femminista come qualcosa di chiuso che genera preoccupazione, non solo in
riferimento all’esperienza specifica, ma anche perché un tale procedere
misconosce inevitabilmente tutto quello che è entrato in contatto con
quell’esperienza, per poi avviarsi ad un percorso proprio, certo non “altro” e
neppure “a parte da”.
Ecco quindi l’esigenza di ritornare su questo testo.
Antologaia, in prima lettura, restituisce
attraverso la biografia politica di Porpora Marcasciano, che è di fatto una
biografia collettiva, il percorso intenso e tragico che porta dal FUORI (Fronte
Unitario Omosessuali Rivoluzionari Italiani) al MIT (Movimento Identità
Transessuale).
Esso attraversa
tutto il movimento di critica radicale della società proprio degli anni
Settanta per arrivare ad una presa di coscienza identitaria, che si fa politica
nel decennio successivo.
È nelle fila del
movimento studentesco di sinistra, infatti, che comincia a farsi largo la
riflessione di Porpora, la quale intuisce che la contestazione, pur avendo
permesso a tanti di mettersi in discussione “non ha assolutamente riguardato il
proprio essere maschio”(p. 21). Nonostante ciò, pur nella consapevolezza che
gli slogan dei compagni mascheravano, e neppure tanto bene, quel maschilismo
patriarcale mai messo in discussione, la rete della sinistra extraparlamentare
permise una maggiore visibilità a quelle che erano le iniziative e le riflessioni
emergenti nella comunità omosessuale, in quegli anni in fase di organizzazione
(p. 105).
Non era però uno
spazio sufficientemente accogliente.
Le influenze
provenienti da altre anime di quel movimento, il femminismo per esempio,
portano Porpora a manifestare il bisogno di maggiore presenza di sé nell’agire
politico:
«sentivo il bisogno di incanalare la mia
esperienza dentro una lotta di liberazione più generale, riuscivo ad inserire
il processo di liberazione nella mia esperienza personale e nella mia
omosessualità, ma non riuscivo a fare il contrario e cioè proporre la mia
omosessualità come prassi rivoluzionaria» (p. 52).
Ecco, quindi,
che il corpo riappare, facendosi perno di un’intera struttura riflessiva:
«mi sento nomade, trasversale, ibrido,
extraterritoriale, l’unica certezza è il mio corpo […], terminale della mia
felicità perché punto di partenza e punto di arrivo di bisogni e desideri» (p.
15).
Questo scrive
Porpora, riportando al centro della sua riflessione politica il corpo e con
esso la parola autocoscienzale. La pratica femminista non è qui solo una eco
lontana. La contaminazione è indiscutibile e l’autrice non la nega, anche se è
costretta a constare come le femministe si opposero alla presenza dei
travestiti nelle proprie fila. Finanche nei cortei, come accadde a Bologna nel
’77 durante la manifestazione contro la repressione, poiché per le femministe i
travestiti rappresentavano “un modello femminile vetusto complice del
patriarcato” (p. 88).
Con la presa di
coscienza si innalza pian piano il livello di autoaccettazione, determinando
quell’aumento dell’autotisma, “che tradotta in termini politici, si chiama
“orgoglio” (p.116)”. Con la conquista orgogliosa dell’identità si avviano una
serie di iniziative pubbliche, che alla fine degli anni Settanta sembrano
subire una accelerazione decisiva.
È
del maggio 1979 la nascita del Collettivo Narciso, in novembre dello
stesso anno la prima manifestazione gay a Pisa, quindi il Pride di Bologna nel
giugno 1980 e due anni dopo l’assegnazione del Cassero di Porta Saragozza…
Non si tratta
però di una marcia trionfale. Enormi sono stati i costi e continua la fatica
per affermare quel principio di nuova cittadinanza, con tutti i diritti che
essa richiede, di cui il MIT si è fatto portavoce.
Nell’intenso e
tragico percorso indicato all’inizio, tra lustrini e polvere di palcoscenico,
comizi improvvisati e incontri organizzativi, è stato possibile imbattersi in
momenti performativi ed in improbabili processioni di imperatrici, nobildonne …
e vaghebionde. Non
sono mancati gli incontri occasionali e quelli a pagamento; le aggressioni; le
riflessioni di Mario Mieli; le canzoni impegnate di Claudio Lolli; e la morte,
arrivata sì tragicamente con le vittime della “peste gay”.
Eppure, in tutto
questo, non è venuta meno né la parola autocoscienziale
«La coscienza è la base necessaria per un sano
rapporto con il mondo e con se stessi: bisognerebbe partire da essa per fare un
sano e favoloso coming out […]» p.118;
né l’importanza
della centralità del corpo
«[…] il corpo non esiste più nella sua totalità
ma in singole parti scomposte. Forse non ce ne rendiamo bene conto […], ma i
corpi sono super controllati, ingabbiati, predefiniti, sterilizzati. […] Di
questo passaggio ne ha coscienza solo chi è riuscito a mantenere una memoria
non solo psichica, ma soprattutto fisica, chi riesce ancora a ricordare gli
odori, i sapori, i colori e la sensualità del corpo reale […]» p. 157.
È nel
protagonismo indiscusso del corpo, nel suo essere mutante o in “via di liberazione”
– come scrive nella postfazione Nicoletta Poidimani –, che Antologaia testimonia come correre il rischio della
contaminazione sia il primo passo per l’affermazione del corpo-soggetto.
MGrazia
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