23 marzo 2011

Tre domande ad Antonella Picchio e all'economia femminista

Three questions to the feminist economics.

Sabato 5 marzo, a Ravenna, il seminario di Storia e politica delle donne promosso dalla associazione Femminile maschile plurale per i corsi della Università per gli adulti Bosi Maramotti, è stato concluso da una mattinata di confronto pubblico fra Serge Latouche, teorico della decrescita, e l'economista femminista Antonella Picchio.
Picchio porta in giro per il mondo da ormai più di quindici anni (almeno dalla conferenza internazionale sulle donne di Pechino, nel 1995, dove era presente come esperta) una approfondita e raffinata analisi femminista sul lavoro di cura svolto dalle donne, non pagato e non conteggiato nella produzione della ricchezza planetaria, che però sostiene l'economia capitalista consentendo la riproduzione – come si diceva un tempo – della forza lavoro (laddove per riproduzione non si intende ovviamente soltanto il partorire esseri umani ma il prendersene cura nella casa e lungo tutte le fasi della vita).
Il suo intervento ha segnato alcuni punti polemici in profondo disaccordo con la visione di Latouche. Ne condivido senz'altro uno: l'essere questo di fatto indifferente di fronte alla contraddizione di genere nella produzione, oggetto di analisi dell'economia femminista, di cui invece a mio parere la teoria della decrescita dovrebbe tenere buon conto se vuole rappresentare una reale alternativa all'esistente.
A Picchio però mi piacerebbe anche porre alcune domande:
Prima domanda, che se ne porta dietro molte altre: come si passa dal riconoscimento teorico dell'enorme valore economico del lavoro di cura svolto dalle donne alla sua concreta valorizzazione (una radicale messa in discussione del capitalismo degli ultimi duecento anni)? Vale a dire, come si conta, e come si ripaga socialmente, se non in moneta, in politiche sociali, fiscali, del lavoro?
Picchio giustamente mette in rilievo il sostanziale fallimento delle politiche di pari opportunità nello svolgere il compito di aumentare da una parte il lavoro salariato delle donne e dall'altra la quota di lavoro di cura non pagato svolta dagli uomini, ma queste politiche hanno fallito perché hanno un vizio di forma o perché non sono state applicate con sufficiente convinzione?Pensiamo a un salario alle casalinghe? A un reddito di esistenza che accompagni individue e individui lungo tutte le fasi della vita non coperte da un lavoro salariato?
Seconda domanda, che sono due: Quale ruolo possono avere in questa visione la critica femminista al modello del lavoro extradomestico salariato full time – di fatto omologante al maschile e subalterno ai fini e ai meccanismi della produzione di merci per il profitto di pochi – come unica via per l'accesso ai diritti e alla autonomia? (Sul sito del Manifesto, il 9 marzo 2011, commentando le manifestazioni dell'8 marzo, Dominijanni tra l'altro scrive: facciamo di questo 8 marzo davvero un giorno di festa .... più di lotta contro il lavoro disumanizzato che di rivendicazione di un lavoro paritario...). E per quanto non desideriamo certo essere risospinte nel cono d'ombra della naturale oblatività femminile, fino a che punto può essere contato, monetizzato, calcolato un lavoro di cura che è indissolubilmente intrecciato con l'ambiguo, ma appassionatamente umano, universo degli affetti e delle relazioni?
Terza domanda: alcuni meccanismi di fondo del funzionamento capitalistico non sono mutati. Ma la spirale del ”turbocapitalismo” energivoro e bulimico di risorse per ossessione produttivista di merci inutili, al servizio di una crescita senza fine e senza direzione, diciamo degli ultimi cinquant'anni, davvero non segna alcuna discontinuità – non fosse altro per la capacità di distruzione dell'ambiente a livello planetario? Ovvero: sono convinta della fondamentale necessità di agire il conflitto con gli uomini in tema di lavoro non pagato, ma perché non dedicare spazio alla riflessione anche su come evitare che l'estinzione della nostra specie renda obsoleto – tra gli altri – anche questo conflitto? E, quindi, in ultima analisi, su come smontare definitivamente questa macchina industriale e produttivista piuttosto che puntellarne la corsa ormai sempre più precaria e mortifera?

Paola

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