21 giugno 2011

Fortress Europe

Piccolo diario di viaggio a Barcelona e ritorno
Little travel diary across the fortress Europe

“Noi non siamo contro il sistema, è il sistema ad essere contro di noi” hanno scritto le ragazze e i ragazzi indignados in Plaça de Catalunya: gioco di parole semplice ed efficace per ricordare quanto il “sistema” sia nemico delle nostre vite e dei nostri corpi, dei loro bisogni ed emozioni.
La “Fortezza Europa” si barrica in un presente senza futuro: ho visto i poliziotti in assetto antisommossa attorno al parlamento catalano “chiuso per tagli” dal movimento che, ironicamente, dice disculpin les molèsties, ci scusiamo per l’incoveniente.
Facevano veramente paura: con il volto coperto dai passamontagna blu, un enorme casco nero in testa, parastinchi che neanche i giocatori di football americano, giubbotto corazzato, sfollagente che sembravano travi e questo inequivocabile macho linguaggio del corpo, piazzati a braccia incrociate e gambe aperte al di là dei cancelli davanti ai quali avevano dormito i manifestanti nelle loro tendine colorate. Per entrare nella sede della Generalitat de la Catalunya misure di sicurezza degne di un obiettivo sensibile: metal detector per borse e persone, impronte digitali per aprire le porte, controllo dei documenti.
Per passare attraverso la Francia controlli ad ogni ingresso da parte della Gendarmerie: c’è Schengen, si sa, non esistono più le frontiere, eppure la Francia le ha ristabilite nei fatti, controllando tutti i documenti di chi entra in treno e in pullman (quest’ultimo, il mezzo dei più sfigati? ), magari una manciata di chilometri dopo la frontiera, in modo da mantenere la finzione di una libera circolazione.
Il nostro mezzo di viaggio a basso costo parlava una mezza dozzina di lingue; francese, italiano,catalano, spagnolo, arabo e altro non so, si è guardato per un po’ con finta e studiata indifferenza col pullman paludato di verde prato carico di leghisti in viaggio per andare a testimoniare la loro virile padanità a Pontida in un italianissssimo autogrill prima di ripartire verso sud.
Benvenuti nella fortezza Europa amici; nel continente che, dopo uno dei bagni di sangue più spaventosi che la storia umana abbia potuto documentare, aveva sognato di essere un territorio aperto e sicuro, senza barriere e discriminazioni, col welfare più avanzato del pianeta, colto e tollerante. Ma si sa, i sogni svaniscono all’alba, o meglio, al risveglio possono tramutarsi in incubi.

Paola

18 giugno 2011

"Frammenti di memoria", recensione a un saggio di Francesca Badi

Francesca Badi, Frammenti di memoria. Donne e guerra a Calestano e Marzolara (1943-1945), Provincia di Parma - Comune di Calestano - Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Parma, 2006.

Il filo attraverso cui si dipana il libro di Francesca Badi ha il merito di mettere in luce la specificità femminile nella partecipazione al secondo conflitto mondiale senza però appiattirla sulle categorie d’analisi dentro le quali viene solitamente confinata. Emerge una lettura critica della memoria delle testimoni che rimette in discussione alcune delle presunte certezze che molta storiografia ancora oggi dà per scontate.
I temi scelti - nascondere, curare, scegliere, madri, ricordare - mostrano chiaramente, e l'autrice lo ha sottolineato più di una volta, che circoscrivere la partecipazione femminile ad una mera estensione del 'tradizionale', 'naturale' e 'spontaneo' lavoro di cura è assai riduttivo.
Riduttivo per la storia tutta, non per la storia delle donne o per la storia di una comunità ristretta come quella di cui parla il saggio.
La nostra è una storia ancora incompleta se mancano Livia, Anna, Maria, Orsolina, ovvero se mancano le donne che questa storia la hanno fatta, non solo vissuta, non solo subita.
Un merito di questo lavoro è quello di aver saputo parlare di tutta la simbologia legata al materno mantenendo ben fermo un punto, ossia che questo è uno dei modi, non il solo, con cui si può spiegare l'agire delle donne, all'interno di un sfaccettata gamma di comportamenti.
Quindi il materno come possibilità, non come spiegazione.
Un dato storico rilevante che emerge dal libro è lo sconvolgimento dei ruoli tradizionali che avviene in quegli anni. É un dato che, a mio parere, deve essere guardato da più punti di vista: è una situazione eccezionale, quindi provvisoria, nella quale le donne si trovano proiettate quasi improvvisamente e di fronte alla quale reagiscono con coraggio; è un banco di prova attraverso cui queste donne scoprono la possibilità di vivere la sfera pubblica che era loro preclusa; é anche un momento di libertà, pur nell'orrore della guerra, in cui le donne diventano 'l'anello forte' della società.
Ma occorre guardare anche l'altro lato dello specchio, l'eccezionalità del momento fa sì che il ruolo avuto nella guerra non soltanto non venga riconosciuto, ma non venga neanche introiettato dalle testimoni stesse, che spesso si raccontano utilizzando i percorsi della memoria ufficiale, sottovalutando le proprie azioni, giustificandole come naturali. L’autrice fa notare, ad esempio, quanto sia stato sminuito il ruolo delle staffette - una delle testimoni quasi si stupisce di essere considerata una partigiana dalla sua intervistatrice - e quanto questa sottovalutazione sia entrata nell'immaginario delle partigiane stesse. Anche in questo caso, se capovolgiamo i punti di vista appare chiaro quanto sia rischioso il ruolo della staffetta, che queste donne hanno rischiato la vita tanto quanto l'hanno rischiata gli altri partigiani, che hanno avuto il coraggio di compiere azioni che gli uomini avevano paura di fare senza mai tirarsi indietro, con un misto di incoscienza dovuta alla giovane età e di coraggio dato dalla consapevolezza di fare la cosa giusta.
Il lavoro di Badi sottolinea con intelligenza il valore delle azioni, non tanto la loro eccezionalità - perché eccezionali non sono, i racconti delle donne di Marzolara e Calestano condividono molte cose con i racconti di guerra fatti da altre testimoni, in altre parti dell'Italia - restituendocele in una luce nuova e collocandole correttamente nella storia, ovvero al suo centro, non al margine.
Dalle testimonianze raccolte nel saggio emerge il coraggio della scelta, la forza di schierarsi, la volontà di fare.
Le donne di Calestano e Marzolara non si lasciano sopraffare dalla guerra, la affrontano.

Valentina

15 giugno 2011

Grace under pressure? ovvero della mancata nominazione del coraggio delle donne

Courage have no name in women's history. Seems to me that it was named: impudence, until 18th century; pity, until 20th century; deviance, to this day.

Ieri leggevo "Donne, resistenza e rivoluzione" di Sheila Rowbotham (Einaudi, 1976) e - come un pensiero che era stato sempre lì, dietro la mia nuca, presente ma invisibile - ho iniziato a riflettere sul fatto che il coraggio delle donne è un concetto senza parola, come un inesistente persistente - evidenza della sua potenzialità rivoluzionaria.
Mi sembra che "coraggio", riferito alla storia delle donne, abbia avuto il nome di: impudenza, fino al XVIII secolo; compassione, fino alla metà del XX secolo; devianza, fino ad oggi.
Mai, però, il coraggio è coraggio.
Una narrazione, sì, ma anche un'introiezione (quanto, mi chiedo?).
E si sa, il coraggio è strettamente legato all'eroismo: senza coraggio non c'è eroe. Non a caso le eroine sono (quasi) sempre sacrificali, a partire dalla tragedia greca.
Tutte parole - tutti concetti - che, certo, si possono rifiutare, perché fortemente connotate in senso virile.
Io, però, non sono d'accordo.
Valentina

P.S. Chiedo scusa per quella che, mi rendo conto, è la bozza di una bozza di riflessione, ma avevo bisogno di condividerla.

10 giugno 2011

I diritti umani alle porte dello Stato-nazione: un'analisi di genere sulla cittadinanza trasnazionale

Human rights and national laws sistems in a gender perspective: migrant women and trasnational citizenship

Duole da sempre il nesso tra donne e cittadinanza, rapporto contraddittorio e imperfetto, acrobaticamente sospeso tra una ovvia necessità di inclusione e allargamento e una meno ovvia, ma altrettanto se non più necessaria, istanza di ripensamento della cittadinanza stessa. A completare – e complicare – il quadro viene una impeccabile analisi di genere che ci è stata offerta dalla studiosa di diritto Orsetta Giolo dell'impatto che la migrazione da una parte e il diritto internazionale nella declinazione dei diritti umani stanno avendo sulla legislazione nazionale degli Stati-nazione in un seminario tenuto il 7 giugno a Bologna che aveva come oggetto alcuni aspetti della cittadinanza trasnazionale delle donne migranti.
Il tema meriterebbe assai più di un post, ma è una riflessione ricca e forse non troppo conosciuta per cui è bello darne conto qui, almeno per stimolare a una lettura più puntuale.
Giolo ha giustamente ricordato la giustificata diffidenza del pensiero femminista verso ogni universalismo e quindi la discontinua attenzione che è stata posta al tema dei diritti umani; eppure, ci mette in evidenza la sua analisi, questo sistema di diritti, che uomini e donne possono rivendicare non a partire dalla appartenenza ad una comunità nazionale (ricordate la creazione della figura dell'apolide come esclusione dall'umano consesso che accompagna la messa a punto della macchina dello sterminio ne Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt?) - condizione che per ragioni ampiamente indagate esclude le donne – ma in ragione del loro nascere umani. Insomma, diritti umani universali (ancorché neutri e da declinare) versus diritti nazionali, umanità versus comunità nazionale di sangue e suolo. Giolo ci ha ricordato come ancora oggi, in Italia ad esempio, si accede alla cittadinanza o per Jus sanguinis, ossia se si è figli di un cittadino italiano (e non è da molto che anche le donne possono trasmettere la cittadinanza) o per matrimonio (ma la condizione deve sussistere non solo al momento della richiesta, ma anche al momento della concessione, anni dopo: vietato separarsi!) e solo dopo molto tempo e con grande difficoltà per residenza, ossia per scelta da parte dell'individuo/a che si stabilisce in un paese in cui studia, lavora, paga le tasse, fa parte della “comunità”. Nei primi due casi, è forse superfluo sottolineare, l'accesso alla cittadinanza è legato ad un vincolo di parentela, di famiglia, di “sangue” (sappiamo bene cosa questo significhi per le donne). Le donne, sostiene Giolo, non hanno molto da guadagnare dalla cittadinanza dello stato nazione, in un panorama di di diritto ancora fortemente improntato da radicati stereotipi di genere: basti pensare che le uniche eccezioni ai decreti di espulsione nei confronti di cittadine senza permesso di soggiorno sono l'articolo 18, che tutela le donne vittime di tratta che accettano di collaborare con le forze dell'ordine (la prostituta) e la donna incinta fino a sei mesi dopo la nascita del bambino (la madre).
Paola