Visualizzazione post con etichetta storiografia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta storiografia. Mostra tutti i post

18 giugno 2011

"Frammenti di memoria", recensione a un saggio di Francesca Badi

Francesca Badi, Frammenti di memoria. Donne e guerra a Calestano e Marzolara (1943-1945), Provincia di Parma - Comune di Calestano - Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Parma, 2006.

Il filo attraverso cui si dipana il libro di Francesca Badi ha il merito di mettere in luce la specificità femminile nella partecipazione al secondo conflitto mondiale senza però appiattirla sulle categorie d’analisi dentro le quali viene solitamente confinata. Emerge una lettura critica della memoria delle testimoni che rimette in discussione alcune delle presunte certezze che molta storiografia ancora oggi dà per scontate.
I temi scelti - nascondere, curare, scegliere, madri, ricordare - mostrano chiaramente, e l'autrice lo ha sottolineato più di una volta, che circoscrivere la partecipazione femminile ad una mera estensione del 'tradizionale', 'naturale' e 'spontaneo' lavoro di cura è assai riduttivo.
Riduttivo per la storia tutta, non per la storia delle donne o per la storia di una comunità ristretta come quella di cui parla il saggio.
La nostra è una storia ancora incompleta se mancano Livia, Anna, Maria, Orsolina, ovvero se mancano le donne che questa storia la hanno fatta, non solo vissuta, non solo subita.
Un merito di questo lavoro è quello di aver saputo parlare di tutta la simbologia legata al materno mantenendo ben fermo un punto, ossia che questo è uno dei modi, non il solo, con cui si può spiegare l'agire delle donne, all'interno di un sfaccettata gamma di comportamenti.
Quindi il materno come possibilità, non come spiegazione.
Un dato storico rilevante che emerge dal libro è lo sconvolgimento dei ruoli tradizionali che avviene in quegli anni. É un dato che, a mio parere, deve essere guardato da più punti di vista: è una situazione eccezionale, quindi provvisoria, nella quale le donne si trovano proiettate quasi improvvisamente e di fronte alla quale reagiscono con coraggio; è un banco di prova attraverso cui queste donne scoprono la possibilità di vivere la sfera pubblica che era loro preclusa; é anche un momento di libertà, pur nell'orrore della guerra, in cui le donne diventano 'l'anello forte' della società.
Ma occorre guardare anche l'altro lato dello specchio, l'eccezionalità del momento fa sì che il ruolo avuto nella guerra non soltanto non venga riconosciuto, ma non venga neanche introiettato dalle testimoni stesse, che spesso si raccontano utilizzando i percorsi della memoria ufficiale, sottovalutando le proprie azioni, giustificandole come naturali. L’autrice fa notare, ad esempio, quanto sia stato sminuito il ruolo delle staffette - una delle testimoni quasi si stupisce di essere considerata una partigiana dalla sua intervistatrice - e quanto questa sottovalutazione sia entrata nell'immaginario delle partigiane stesse. Anche in questo caso, se capovolgiamo i punti di vista appare chiaro quanto sia rischioso il ruolo della staffetta, che queste donne hanno rischiato la vita tanto quanto l'hanno rischiata gli altri partigiani, che hanno avuto il coraggio di compiere azioni che gli uomini avevano paura di fare senza mai tirarsi indietro, con un misto di incoscienza dovuta alla giovane età e di coraggio dato dalla consapevolezza di fare la cosa giusta.
Il lavoro di Badi sottolinea con intelligenza il valore delle azioni, non tanto la loro eccezionalità - perché eccezionali non sono, i racconti delle donne di Marzolara e Calestano condividono molte cose con i racconti di guerra fatti da altre testimoni, in altre parti dell'Italia - restituendocele in una luce nuova e collocandole correttamente nella storia, ovvero al suo centro, non al margine.
Dalle testimonianze raccolte nel saggio emerge il coraggio della scelta, la forza di schierarsi, la volontà di fare.
Le donne di Calestano e Marzolara non si lasciano sopraffare dalla guerra, la affrontano.

Valentina

10 aprile 2011

Scomparsa del corpo, assenza del soggetto

Disappearance of body, absence of subject.
Feminist historiography between gender perspective and “women’s history”.

Soffocamento. Questa è la sensazione che rimane a margine di un convegno di storia delle donne.
Minorità dell’argomento sottolineata dalla presenza poco numerosa ed esclusivamente femminile di pubblico.
Studiosi, il maschile linguistico va da sé, sebbene nove siano le studiose e uno solo lo studioso. Giovane, quest’ultimo – catalizzatore di condiscendenza materna: un uomo che si/ci degna di assumere ad oggetto delle proprie ricerche tematiche femminili (ovvero che abbiano per oggetto le donne)!
Seguono interventi in cui le donne - indicate come soggetto, almeno stando ai titoli dati alle letture -, si rivelano scarni oggetti di classificazioni. Private della loro esistenza (il corpo), le donne svaniscono nel tentativo fallimentare di analizzare i ruoli nei quali sono state collocate. L’inefficacia dell’operazione deriva proprio dall’assenza del soggetto. In sua assenza, infatti, risulta impossibile cogliere appieno il peso che quei corpi di donna hanno avuto nello stabilire o nel modificare un determinato ruolo. Ma tra i presenti nessuno sembra essersene accorto.
Eppure l’assunzione di una peculiare prospettiva di genere è una metodologia che coinvolge in primo luogo chi compie la ricerca: serve a far sì che l’esistenza negata dalla Storia riemerga, rivelando l’inganno di una ricostruzione storica che ne ha naturalmente avallato l’assenza.

Ossigeno. È tutto qui, in alcuni versi di Emma Baeri (I Lumi e il cerchio, Rubbettino 2008, p. 190):

La fine della storia
appare morte
ma è sguardo differente
sulle cose
è acquisto di memoria
di me stessa – lieve
pensosa di parole nuove
Può sembrare banale
forse insano
Ma la gioia di esistere
è più forte
del greve condiscendere del padre
della grigia mestizia
che trascura
il sapore del vento
(…)

MGrazia


22 marzo 2011

memoria e storia

The link between memory and history isn't a Hegelian dialectic process.

È noto, ci sono silenzi che urlano nella storia della donne, ma bisogna avere un orecchio attento per ascoltarli.
Quasi tutto il novecento è stato caratterizzato da un'istanza di rimozione della memoria, istanza che nei regimi totalitari si è espressa in un vero e proprio tentativo di cancellazione oltre che di mistificazione.
Gli ultimi anni del novecento hanno segnato, anche in Italia, una netta inversione di tendenza, tanto che Annette Wieviorka ha definito quella in cui viviamo «era del testimone», concetto che per la storica ha un’accezione ampia che non riguarda solo i sopravvissuti al genocidio nazista degli ebrei d’Europa.
La relazione storia/memoria trascina con sé dei nodi che ancora oggi appaiono insolubili, da qualunque prospettiva li si osservi.
Se, però, provassimo a capovolgere i punti di vista e non ci facessimo condizionare dagli schematismi, considereremmo la memoria e la storia l'una una risorsa per l'altra.
Memoria e storia non sono le due fasi di un processo dialettico in cui la sintesi passa per il superamento del dualismo, un processo di sintesi che, in ogni caso, appare oggi impossibile: la separazione sempre più netta tra le due ha generato una dicotomia che ha finito per ipostatizzarsi.
Per chi ricorda la memoria è la storia dell'evento narrato, in questo senso la memoria è oggettiva.
Nel raccontare il testimone spiega non solo ciò che gli è accaduto, ma spiega l'accaduto; nell'atto di raccontare il punto di vista del singolo è tale solo per chi ha un punto di vista esterno, non per il singolo stesso.
Nel momento in cui lo storico entra in relazione con le memorie piene di vita dei testimoni deve imparare a guardarle come fonti.
Le fonti vanno circoscritte, contestualizzate, analizzate e poste a critica; chi scrive la storia deve interrogare le fonti ed essere disposto a farsi stupire da risposte che non si aspettava; chi scrive la storia deve dar voce alle infinite sfaccettature che assume il silenzio; chi scrive la storia non può scaricare tutta la responsabilità della narrazione sulla fonte, anche se lo fa in buona fede, magari per una forma di rispetto della fonte stessa; chi scrive la storia, in sostanza, deve mettersi in gioco, rischiare.
E' un percorso che sembra ancora più difficoltoso in relazione alla selezione del materiale: il ricercatore vorrebbe avere la possibilità di ascoltare tutte le voci, leggere tutti i racconti, analizzare tutte le memorie, ogni cernita sembra un torto.
Compito dello storico, però, non è quello di correggere il testimone, di mettersi in relazione con la storia del singolo, ma di mettere in relazione le voci dei testimoni.
Come ha scritto Ricœur «c'è un privilegio che non può essere rifiutato alla storia, quello non soltanto di estendere la memoria collettiva al di là di qualsiasi ricordo effettivo, ma di correggere, di criticare, e anche di smentire la memoria… Proprio sul cammino della critica storica, la memoria incontra il senso della giustizia. Che cosa sarebbe una memoria felice che non fosse anche una memoria equa?».

Valentina