21 maggio 2011

Il nostro dolore è politico

Our inner pain as a political issue (about Lorella Zanardo, author of the docufilm “The women's body”, and media female body image)

Lorella Zanardo, autrice de “Il corpo delle donne” molto visto e molto discusso, è oggetto da tempo di una sorta di “stalking mediatico” da parte della trasmissione “Striscia la notizia”, la cui troupe l'ha aspettata per coglierla sola di ritorno a casa e piantarle in faccia le luci della ribalta intimandole di discolparsi per la sua detestabile opera.

Lascio ad altri l'interrogativo su perché desti tanta irritazione, rabbia e scompiglio, un documentario bello, utile e interessante, ma che in fondo non fa che riprendere il tema, certo non nuovo ma piuttosto ultratrentennale nel dibattito femminista internazionale, sull'uso delle immagini e dei corpi femminili nella comunicazione di massa. Forse perché si tratta di tv? Forse perché preoccupa così tanto che donne e – non sia mai – femministe, lungi dall'essere tutte ormai anziane signore ritiratesi a vita privata, riflettano ancora su questi temi? Così come lascio ad altri la querelle sul presunto moralismo bacchettone di chi si dissocia dalla passione nazionale per tette e culi di giovani donne in mostra. Per liquidare con una battutaccia l'argomento, che meriterebbe certo ben altre considerazioni, sono disposta a riparlarne con i miei amici quando bocceranno il politico di turno per la sua assenza di appetibili bicipiti o si riterrà necessaria l'esibizione di un bel pacco per vendere il caffé. Sono volgare? Ebbene sì, arrossisco, ma ogni tanto cedo alla tentazione di rendere pan per focaccia. Se il corpo maschile non è utilizzato come quello femminile a mio parere è per due semplici motivi: il primo, il differenziale di potere che ancora regala questa parte dell'immaginario collettivo alla sessualità maschile tradizionale e alle sue ossessioni; il secondo lo sforzo di molte donne (e anche di alcuni uomini ) di costruire una diversa cultura delle relazioni, del desiderio e degli affetti (che è quanto di meno moralista e bacchettone io abbia mai sperimentato in vita mia).

Per tutte queste ragioni, dissento da Lorella Zanardo, che ammiro e rispetto, quando dice “Sono arrivata a questo documentario non per ragioni politiche e culturali, ma perché ho subito sulla mia pelle l'umiliazione per come è trattato il corpo delle donne” (D di Repubblica del 7 maggio 2011). Cara Lorella, io credo che la tua umiliazione, pari e identica a quella di tutte noi (come tu giustamente rilevi in un passaggio successivo) sia un fatto politico e culturale. Il tuo dolore è politico (anche questo lo ha detto il femminismo ormai un po' di tempo fa), altrimenti non susciterebbe le inviperite reazioni che suscita e perché anche da esso scaturisce la necessità di un “nuovo ordine mondiale” nelle relazioni fra uomini e donne. Se non è politica questa...

Paola

17 maggio 2011

17 maggio 1981 - 17 maggio 2011: trent'anni dal referendum sulla legge 194.

A short history of the italian abortion legislation in the thirtieth anniversary of its approval.

È il 1973, a Padova, una donna, Gigliola Pierobon, subisce un processo con l'accusa di procurato aborto.
Nel 1973, in Italia, vigevano ancora le norme del Codice Rocco, del 1930, per le quali l’aborto era definito reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Pena prevista: da uno a cinque anni di reclusione per le donne che si procuravano da sole l’aborto; da due a cinque anni per quelle che si sottoponevano all'interruzione e a chi lo praticava.
La grande maggioranza delle interruzioni di gravidanza avveniva clandestinamente, spesso con metodi rozzi e dannosi quali i decotti di prezzemolo, di chinino, gli aghi da maglia inseriti nell'utero. Solo per le donne più abbienti c’erano le cliniche private, illegali o estere.
Il processo Pierobon diventa il pretesto per una mobilitazione di massa delle donne. Non solo le femministe scendono in piazza con una grande manifestazione, ma entrano nel processo, invadono il tribunale e si autodenunciano per aver abortito.
Pierobon viene assolta, insieme a tutte le altre donne che si sono autodenunciate.
Il movimento femminista porta alla luce in modo eclatante la drammaticità dell’aborto clandestino - esso sì una violenza conseguente il controllo sociale della sessualità femminile - e rivendica il diritto di abortire, come diritto di ogni donna di autogestire il proprio corpo.
Subito dopo, nel 1974, il deputato radicale Loris Fortuna fa una proposta di legge.
Nel 1978 verrà approvata la legge 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”.
Le femministe la definiranno una “legge truffa”, a causa del potere dato al medico, cui spetta di decidere se la donna è nella condizione fisica o psicologica di non poter portare avanti la gravidanza.
Nonostante la legge fosse un enorme passo avanti, viene negata la capacità della donna di autodeterminarsi, di scegliere per se stessa.
La legge scatena le ansie moralistiche e apocalittiche della società conservatrice.
Nel 1981 si andrà al voto per il referendum abrogativo. Il movimento femminista, a quel punto, non può più contare su una presenza massiccia sul territorio, ma la vittoria dei no è comunque schiacciante (67,8%).
Valentina

14 maggio 2011

La giusta ripartizione delle risorse per la pace tra i popoli – una proposta femminista degli anni Venti

The right allocation of resources for peace between peoples – a feminist proposal of the Twenties.
The public debate does not give space to a reflection on the despair that surrounds us and takes away hope. For this reason I propose a reading of old papers, which surprise by their extraordinary relevance: the economic reform program sponsored by the Women’s International League for Peace and Freedom in 1927.

Il 2 maggio 1927 Lou Bennett, attivista della Women’s Internatioanl League for Peace and Freedom, dichiarava che “l’organizzazione aveva sin dalla sua fondazione (il 1915) realizzato che le politiche economiche nazionali e internazionali erano legate non solo alla pace ma anche alla libertà, e pertanto le politiche economiche esistenti dovevano essere riorganizzate su nuove basi e secondo un nuovo spirito, affinché sia la pace sia la libertà potessero essere costruite su più sicure fondamenta”.
Da queste considerazioni discese un programma di riforma dell’economia mondiale pensato da donne, pacifiste non-violente, ecologiste e femministe. Il programma auspicava l’assunzione del governo internazionale dell’economia da parte di un organismo internazionale per limitare il potere dei trusts e pianificare sia la produzione sia la distribuzione. La direzione internazionale dell’economia, secondo la Wilpf, necessitava di alcune inchieste preliminari tese a determinare l’esatto fabbisogno di viveri di ogni paese, per equilibrare la produzione agricola ed evitare alle popolazioni periodi di carestia e fame; e a stabilire la reale quantità di materie prime necessarie all’industria, per inventariare le risorse naturali e procedere alla loro equa distribuzione, eliminando sprechi e ingiustizie.
I beni alimentari, le fonti energetiche e le materie prime, essendo fondamentali per il progresso della civiltà, necessitavano secondo le wilpfers di particolari tutele da elaborare mediante programmi di internazionalizzazione della ricchezza e la definizione delle condizioni affinché ogni paese potesse accedervi senza restrizioni.
La libera circolazione delle merci doveva andare di pari passo con la giusta distribuzione dei prodotti destinati al benessere umano. L’economia non avrebbe dovuto essere condizionata dall’esistenza di barriere doganali o di tariffe e sovvenzioni statali, utilizzate per regolare il flusso di import/export, ma gli stessi governi nazionali avrebbero dovuto sostenere i costi di un’operazione di apertura dei mercati, destinando ai programmi di internazionalizzazione economica le somme risparmiate con la soppressione del budget di guerra.
Un tale progetto economico risulta conforme al principio dell’interdipendenza. La sua realizzazione, infatti, comportava l’impegno da parte degli Stati ad auto-limitare la propria sovranità nazionale, in nome dell’interesse comune. Richiedeva, inoltre, l’assunzione da parte di una struttura sovra-nazionale del controllo delle vie di comunicazione e dei mezzi di trasporto, per migliorare e rendere omogeneo il sistema. Un controllo internazionale ritenuto indispensabile per favorire la riorganizzazione del lavoro su basi di giustizia, obbligando tutti i paesi a riconoscere ai lavoratori gli standard minimi di sicurezza e benessere, non solo quelli economici, ma anche quelli morali ed intellettuali.

Credo di non poter aggiungere altro.
MGrazia