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13 giugno 2012

Femminismo, dose (minima) giornaliera raccomandata

Avvertenza: leggere le femministe fa bene alla salute
Feminism: Recommended Daily Allowance

Mentre li rileggo io, mi vien voglia di farli rileggere anche a voi, questi vituperati e amati "sacri testi" del femminismo. E siccome siamo nell'era digitale, ve li somministro in pillole, così da prepararvi omeopaticamente ai nostri saggi più corposi. 

Vai allora con queste pillole, ma no, che dico, squisiti mignon di femminismo anni '70; e chissà che non ci rimandino, molto più di quello che si potrebbe immaginare, un'immagine leggibile e significativa del nostro presente dalla distanza storica.

"Una barbarie intelligente, una sensualità ironica, una ingenuità sapiente forse non esistono ancora, ma c’è già un motivo per pensare che siano possibili. Per questa piccola speranza,vale la pena di combattere i tristi, i noiosi, i bisognologhi, i miserabilisti: l’ascetismo rosso".

Lea Melandri, L'infamia originaria, 1977
Paola

7 maggio 2012

Generazioni del femminismo: una presa di parola

Feminism across generation: have your say

Scelgo di ripubblicare qui parte di un intervento di qualche anno fa (apparso su ServerDonne – www.women.it - nel 2006). Come periodicamente è accaduto in particolare nell’ultimo quindicennio,  in quella occasione si era riaccesa una breve fiammata di confronto sulla difficoltà di stare nel femminismo per donne di generazioni diverse; in particolare attorno alla precarietà di vita e di lavoro. La ‘grande crisi’ non c’era ancora, ma come diventa per me ogni giorno più evidente, questa non ha cambiato la sostanza di una condizioni che già vivevamo sulla nostra pelle da tempo. In questo intervento ritrovo alcune delle motivazioni che  mi hanno spinto a lavorare al progetto di un glossario delle parole nelfemminismo italiano che pubblichiamo su questo blog.


Spesso provo nei confronti delle parole una grande stanchezza, un sentimento che non so altrimenti nominare e che prende la forma di un desiderio struggente di silenzio e solitudine, reali e metaforici, di vedermi crescere qualcosa fra le mani, un oggetto materiale, per quanto piccolo e umile, ma muto, ovvero che parli da sé: che so, un vaso, una coperta, una pianta. Coltivare un orto, contare i giorni di pioggia e quelli di sole, osservare il cielo.

Ma sono qui. Le parole sono state tanta parte della mia vita sinora, e una presa di parola è necessaria. Perché non conosco ancora altro modo di esorcizzare davvero una pena se non condividendola, e, quindi, scrivendo.

Dire allora. Intanto, che tutte noi, “giovani” (che confusione, vi assicuro, essere una giovane donna a quarant’anni, che beffa, a volte, quando ti senti il futuro scivolato fra le mani senza mai agguantare almeno uno straccio di “maturità”, sempre dietro l’angolo, sempre un po’ più in là) e “vecchie” viviamo dentro un tempo storico che agisce non solo sopra e fuori di noi, ma anche dentro di noi, ci attraversa: processi e conflitti e che i conflitti fanno male, producono un dolore autentico e profondo. Nessun “determinismo”, credetemi, piuttosto, una presa di coscienza.

E’ quasi paradossale che proprio fra noi, che abbiamo elaborato e fatto nostra una cultura e una tradizione politica di libertà e di responsabilità, di relazione con l’altra e con l’altro, contrapponendola alla mortifera riduzione ad uno, noi, che ci siamo radicate nella differenza e che nello scarto ontologico e comunicativo che essa produce abbiamo visto il germe di una diversa razionalità non oppressiva, siamo così in difficoltà ad affrontare il dolore quando il conflitto si genera nella diversa esperienza generazionale di donne di età diverse che in questa cultura si riconoscono e per essa hanno lavorato.

Davvero allora può servire riconoscere fino in fondo anche al femminismo la sua dimensione nel tempo storico. Non tanto per scriverne la storia, come si sta autorevolmente e utilmente facendo e ancor più spero si farà in futuro. E ancor meno per dichiararne chiusa l’esperienza e morte le radici. Ma quanto piuttosto per arricchirne i nessi e le dimensioni nel tempo, per collocarlo in quello della specialissima esperienza di una generazione e riconoscere la relazione con quelle successive e quelle che verranno. E per capire insieme, se possibile, come e perché, in questo tempo storico, si è rotto un patto fra generazioni. Un patto fra generazioni di uomini e un patto fra generazioni di donne, tutto interno ad una cultura molto maschile: quella del progresso, del benessere illimitato che avanza, di un miglioramento senza fine e senza ritorno delle condizioni materiali di vita.


Certo, chi se non le donne e il loro pensiero hanno prodotto l’etica del limite e della responsabilità, quando è toccato vedere quanto la scienza ci metteva di fronte ai nostri limiti? Certo, chi se non le donne e il loro pensiero hanno sempre saputo e tenuto conto della difficile materialità dei corpi sessuati, del dolore di nascere e di morire, del vincolo forte di relazioni incarnate e non solo “virtuali”? Eppure, per quello che riguardava le aspettative, le proiezioni di sé e sulle generazioni future, insensibilmente, in modo evidentemente così difficile da decostruire, tutte abbiamo vissuto dell’illusione e della pretesa dell’illimitato progresso, e dello scacco personale di fronte all’incapacità di agguantare il proprio posto nel mondo.

La paura mangia l’anima, recita un proverbio arabo. Io odio la paura che ogni giorno mi mangia l’anima. L’ansia che mi toglie tempo e coraggio di mettere in campo  visioni. Sono qui, costretta a pensare ogni giorno, ogni ora che passa a che sarà di me, a che sarà di mia figlia a cui nulla neppure di quello che è stato garantito a me portò garantire, figuriamoci immaginare che lei possa avere un giorno ciò che io non ho avuto, come è stato per le generazioni che ho immediatamente dietro le spalle. Ci è stata spesso rimproverata la nostra fragilità, intellettuale ed esistenziale, la nostra incapacità a diventare un soggetto politico. Per tanti versi è vero. Così vero che ho dovuto cominciare a pensare che non potesse essere solo il frutto della mia privatissima inadeguatezza, e di quella delle donne che mi stanno intorno. Di fronte a questo giudizio, ogni richiamo a questa precarietà che ci soffoca e ci umilia suona come una giustificazione, lo so. Ma la precarietà proprio questo produce, o, in senso ancora più forte, proprio questo serve a produrre. Forse è da qui che, tutte, dovremo ripartire a capire. Da noi. Un ripartire da sé declinato nella verità dei nostri limiti ma anche in quella del tempo storico che viviamo.

Paola

27 aprile 2012

Restituire complessità al lavoro delle donne in un'ottica femminista ('70-'90)

Words into Italian Feminism: to continue our  discussion about feminism we illustrate a research project going on  with the word Work (scroll down for english version)

Per un Glossario delle parole nel femminismo italiano: continuiamo la nostra riflessione sul femminismo e la sua storia presentando una sintesi dello schema della parola Lavoro.




Lavoro

Con  “Lavoro” intendiamo esplicitare alcuni complessi e spinosi nodi teorici del pensiero femminista italiano mostrandone lo sviluppo nel tempo fino al dibattito presente. La problematica della divisione sessuale del lavoro in produttivo e riproduttivo è stata cruciale nel movimento femminista italiano all’inizio degli anni settanta. Il dibattito si sviluppò soprattutto attorno alla opportunità di chiedere o meno un salario per il lavoro non pagato delle casalinghe. Si sottolineava  il nesso significativo fra sistema capitalistico e sfruttamento del lavoro domestico delle donne ( il capitalismo non può funzionare senza questo lavoro invisibile, nascosto) così come con la fissità dei ruoli di genere. 


Pensatrici femministe come Carla Lonzi – ma anche collettivi femministi e gruppi di base – cominciarono precocemente a mettere in discussione il modello maschile del lavoro extradomestico e della carriera come unica strada per l'accesso ai diritti, al rispetto e ad avere voce nella sfera pubblica. Era una critica radicale all'idea della cosiddetta “emancipazione femminile”, il modello proposto dai partiti della sinistra e dai sindacati che chiedevano più inclusione per le donne nella società. Il movimento femminista si rifiutava di chiedere maggiore inclusione delle donne nella società maschile, ma era piuttosto alla ricerca delle vie per ripensare e ridisegnare l’intera società. Liberazione, intesa come ricerca di una identità femminile completamente libera dai condizionamenti del maschile venne contrapposta ad “emancipazione”.
Nelle decadi successive, specialmente a partire dagli anni novanta, il dibattito si spostò quasi interamente sul welfare e sui provvedimenti legislativi necessari a promuovere e supportare l'ingresso delle donne nella vita professionale e nel mercato del lavoro, in particolare fra le donne impegnate nei partiti politici, nei sindacati e nelle istituzioni. Fu un periodo caratterizzato dal fiorire di molte iniziative, sia a livello locale che a livello nazionale, che recepivano le indicazioni provenienti soprattutto dall'Unione europea in materia di pari opportunità. Da parte sua, il  movimento femminista mise per lo più da parte la questione, focalizzandosi su altre istanze teoriche, mentre, abbandonando la presenza e l’azione politica nello spazio pubblico si stava trasformando in un movimento culturale con la fondazione di archivi, centri, biblioteche. Molta della complessità e della dimensione critica di quel dibattito venne quindi perduta e non venne trasmessa alle nuove generazioni  proprio mentre le giovani donne iniziavano a discutere degli effetti della globalizzazione e della precarizzazione del lavoro. E' infatti nel contesto di un progressivo attacco al welfare, di precarizzazione del lavoro appunto e poi di crisi economica che riemergono, pure con una diversa valenza, aspetti di critica al modello emancipativo – collegati in modo nuovo alla critica al sistema capitalistico che si sviluppa anche all'interno del cosiddetto movimento no-global. Emergono nuove problematiche: il ruolo delle donne immigrate nel lavoro di cura come “sostitute” delle donne native; la necessità di redistribuire i carichi di cura; l'emergere di nuovi modelli maschili e di paternità.


Work

Even the translation from italian “lavoro”  into a proper english term is a challenging theoretical question, given that in italian language the word “lavoro” could nearly without distinction mean “work”, “job”, “labor”. We’ll try to  explain some complex issues of the italian feminism through from Seventies to Nineties, touching  the present lines of reasoning.
The topic concerning the sexual division of labor in productive and reproductive work was a crucial point of discussion within the feminist movement in Italy at the beginning of the seventies. The debate developed around the advisability of calling a wage for housewifes' unpaid work or not. Some feminist groups calling a wage saw a meaningful link between capitalism and the exploitation of unpaid women’s work (without this unpaid hidden work capitalism doesn’t work) likewise fixed gender roles and identities. Feminist theorist like Carla Lonzi, but also grassroots feminist groups early started questioning the male model of extra-domestic job and career as a unique way to get rights, respect and power within the public sphere. That was a strong critique of the so-called “emacipatione femminile” (female emancipation), the term used and the model proposed by left parties and Trade Union demanding more inclusion for women in society. Feminists refused to demand inclusion in this male society; they are seeking a way to re-think and re-shape the whole society. By the  feminist movement  “liberazione” (liberation),  the quest for a female identity completely free from any influence of the  male dominance, was set against the “emancipazione”(emancipation).
During the following decades, especially in the nineties, the debate almost entirely shifted on welfare and laws necessary to promote and support women to enter in a professional life and in the labor market. The feminist movement put aside the topic: it was abandoning the demonstrations, the political activity and presence in the public spaces and turning on a cultural movement, funding archives, libraries and centers and focusing on other theoretical issues.
Those days were characterized by plenty of initiatives both at the national and local level according to the indication by the EU about equal opportunity issues. Extra-domestic female job was becoming  more widespread (despite the female employment average is still lower in Italy than in other European country). So, the complexity of the debate got lost and was not transmitted to younger generations.
More recently, in a frame of increasingly unemployment, attack on the welfare system and economic crisis some  elements of critical analysis on the model of “female emancipation” are back again. This revival is related in a new and original way to some emerging issues within the so-called no-global movement, like the role of migrant women as a surrogates of native women and the critique on industrialism, endless consumption of good  and growth that are threatening our environment. At  the same time, the debate goes on about a fair splitting of care burdens between women and men who are adopting new attitudes in fatherhood and family relationships.

Paola

20 aprile 2012

Il femminismo italiano dai '70 ai '90: appunti per una storia

Riprendiamo un discorso già iniziato*, ampliandolo.

Non è facile offrire una prospettiva storica del femminismo italiano poiché ancora oggi manca, per l’Italia, un’analisi storiografica complessiva e di largo respiro. Questo evidenzia un problema non solo di ordine pratico, relativo alla ricostruzione della varietà e molteplicità sia degli inizi che dei collettivi, ma spinge a riflettere anche sulla difficoltà di rielaborare la propria storia da parte delle protagoniste.


C’è stata una forte discussione, ed il dibattito è tutt’oggi aperto, sulla derivazione del neofemminismo dal movimento degli studenti o sulla autonomia e discontinuità con questa esperienza.
Le due cose, in realtà, sono meno contrastanti di quanto non appaiano, proprio a causa della molecolarità del neofemminismo italiano. Se da un lato è vero che i primi collettivi anticiparono le grandi mobilitazioni studentesche, è vero anche che il movimento studentesco per molte donne rappresentò l'inizio e il luogo privilegiato di una riflessione sui rapporti di potere tra i sessi che le avrebbe poi condotte al femminismo. Nella rivolta degli studenti esse ravvisarono, da un lato, la propria condizione di subalternità rispetto all’uomo e, dall’altro, la necessità di cambiare i rapporti fra i sessi. La presa di coscienza così definita si tradusse nella separazione dei collettivi femministi dal resto del movimento. Le donne espressero così l’esigenza di riunirsi tra di loro per sovvertire quello che agli inizi degli anni Settanta era il perno della struttura su cui poggiava l’intera società: visto che il valore di una donna si definiva in relazione ad un uomo, era necessario dare valore alla donna tra le donne.
Il movimento delle donne è l’ultimo movimento politico in ordine temporale a diventare visibile sulla scena politica e sociale, ma quello destinato a lasciare sul lungo periodo maggiormente il segno nella società, nei comportamenti, nei costumi, nelle mentalità, nel modo di relazionarsi tra le persone.
La genesi del neofemminismo italiano si colloca molto precocemente nel 1965, anno in cui nasce il gruppo Demau - Demistificazione autoritarismo divenuto poi Demistificazione autoritarismo patriarcale, un gruppo promosso da donne a cui partecipano anche alcuni uomini.
Ma è a partire dal 1970 che si assiste, in tutta Italia, ad una vera e propria fioritura di gruppi e collettivi di sole donne molto diversi tra loro, soprattutto per quanto riguarda i riferimenti culturali ed ideologici cui si rifacevano.
Quando nel 1970 fu diffuso il Manifesto di “Rivolta femminile”, si avviò un meccanismo per il quale si pensò di poter partire dal punto più lontano della politica, il corpo e la sessualità, e mettere in discussione tutto l’impianto su cui poggiava la civiltà, con le sue istituzioni e i suoi saperi. Attraverso la riflessione di Carla Lonzi, e le tante altre che contribuirono al dibattito collettivo, il femminismo riuscì nel tentativo di immettere qualcosa di nuovo sulla scena politica: il “partire da sé” da tema politico divenne modo di fare politica.
Da subito le donne iniziano ad occupare pubblicamente lo spazio con il proprio corpo. Nel 1971, il collettivo Lotta femminista di Roma, chiamò le donne a scendere in piazza in occasione della Giornata internazionale per l’abrogazione delle leggi proibitive dell’aborto. Negli incontri serali e clandestini delle femministe maturò l’organizzazione della manifestazione dell’8 marzo 1972 (Roma, Campo dei Fiori). Pur non essendo stata autorizzata, il passaparola delle donne condusse in piazza circa 20.000 persone. A manifestare vi erano donne nate in prevalenza negli anni Quaranta, non chiedevano genericamente diritti, chiedevano specificamente diritti per sé, avendo “deciso di essere sesso che valeva tanto quanto” per usare un’espressione di Edda Billi (Casa internazionale delle donne, Roma).
La presa di parola, prevalente in una prima fase, si accompagnò, quasi immediatamente, ad un’altra pratica, quella della scoperta e della conoscenza concreta del proprio corpo, attraverso il dialogo e il confronto con le altre donne.
Nel volgere di pochissimi anni l’effetto dell’apparizione di questa nuova soggettività femminile fu dirompente e capillare.
Il femminismo ebbe una grande diffusione coinvolgendo, attraverso occasioni e incontri, molte donne provenienti da storie differenti. L’occasione poteva essere data dal gruppo più ristretto che si misurava con l’autocoscienza, dall’avvicinamento ai luoghi in cui gruppi e collettivi si incontravano, dall’incrocio tra vicende personali che in un diverso tempo storico sarebbero rimaste confinate negli aspetti più privati e intimi della vita di ciascuna, con invece una cultura diffusa che portava a riflettere su di esse insieme ad altre: dai rapporti d’amore alla sessualità, alla scelta della maternità , al nodo doloroso e difficile dell’aborto, allora clandestino.
Le donne, in quanto soggetto politico, entrarono prepotentemente sulla scena pubblica, costruirono spazi d’incontro, diedero vita a gruppi teatrali, radio libere, case editrici, consultori autogestiti e in tante, singolarmente e insieme, cambiarono i ritmi e le scansioni della vita quotidiana, inventando nuove forme di socialità femminile. 


Gli anni di massima visibilità, quelli che vanno dal ‘74 al ‘77, furono contemporaneamente quelli delle prime crisi dei gruppi di autocoscienza, di allontanamenti e di nuovi differenti inizi.
Emergevano sempre più nettamente le differenze interne ai gruppi di donne e si faceva sempre più evidente, anche nello spazio pubblico, l'impossibilità di una tanto ideale quanto impossibile sorellanza fondante le relazioni e le azioni delle donne.
Il tema dell'aborto conduce a un dibattito serrato, aspro e intenso sia a livello pubblico che privato. E’ proprio l’aborto uno dei temi su cui si misurerà la crisi del femminismo degli anni Settanta.
La discussione sull'aborto può essere definita una causa interna di messa in crisi del femminismo, le cause esterne possono essere individuate negli spazi tolti dal terrorismo ai movimenti, che ne furono uccisi e al femminismo in particolare, anche se fu l'unico a sopravvivere.
Molti definirono "colpevole" il silenzio delle femministe sul terrorismo, un silenzio che silenzio non era, ma che veniva riempito di senso da molte militanti.
Una esperienza importante, che nasce proprio in quegli anni, è quella della Libreria delle Donne (Milano, 1975): uno spazio di relazione tra donne che segnava tangibilmente la presenza nella sfera pubblica di un'esperienza differente. Fu quello il primo nucleo dal quale partì la riflessione e la diffusione del pensiero della differenza sessuale.
La tempestiva traduzione di Speculum da parte di Luisa Muraro (uscito in Francia nel 1974 e in Italia nel 1975) e la rapida diffusione del libro costituirono un punto di riferimento per l’elaborazione di pensieri e teorie che ponevano al centro la differenza dell’essere donna e dell’esperienza femminile.
Un pensiero che, a partire dalla decostruzione del discorso freudiano sulla sessualità femminile, superava la categoria dell’oppressione e poneva in campo un soggetto altro, rompendo con l’universalità del soggetto maschile e del suo linguaggio.
Il pensiero della differenza si radicherà profondamente nel femminismo Italiano e assumerà, a partire dagli anni ‘80, una posizione dominante nella percezione e rappresentazione del femminismo. Dato, questo, che mette in evidenza sin da subito le questioni relative a trasmissione, memoria, eredità. Le elaborazioni femministe che hanno prevalso negli anni ‘80 e ‘90, legate all’impostazione filosofica del pensiero della differenza, che comportava implicitamente un rifiuto della storia, hanno costruito e trasmesso una visione paradossale per cui proprio il femminismo italiano, che aveva avuto un carattere di massa superiore a quello di ogni altro paese, è stato rappresentato come un percorso teorico di piccoli gruppi o di singole pensatrici, sia pure grandi (Carla Lonzi su tutte).

Il lascito di leggi seguito alla spinta femminista degli anni Settanta è notevole. In generale, possiamo affermare che il neofemminismo si disinteressa completamente dell’elaborazione e approvazione di leggi molto avanzate che, però, sono senza dubbio dirette conseguenze delle sue battaglie, quindi possono a tutti gli effetti essere definite sue conquiste: 1968, la Corte costituzionale dichiara incostituzionale la disuguaglianza dei sessi nella punizione dell’adulterio e le norme sul concubinato; 1970 è approvata la legge sullo scioglimento del matrimonio; 1974 al referendum abrogativo del divorzio il 58% vota per il mantenimento della legge; 1975 sono approvate le leggi di riforma del diritto di famiglia che sanziona la parità dei coniugi e d’istituzione dei consultori familiari; 1977 è approvata le legge sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro; 1978 è approvata la legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza; 1981 è approvata la legge che abroga la rilevanza penale della causa d’onore come attenuante nei delitti. Gli opposti referendum abrogativi della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, uno radicale, gli altri proposti dal Movimento per la vita vengono respinti nella consultazione popolare; 1984 è istituita la Commissione nazionale per la realizzazione della parità e delle pari opportunità fra uomo e donna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; 1991 è approvata la legge 125 sulle azioni positive per la realizzazione delle pari opportunità nel campo del lavoro; 1996 è approvata la legge contro la violenza sessuale, che da reato contro la morale diventa reato contro la persona.

Negli anni Ottanta e Novanta - oltre al già citato radicarsi del pensiero della differenza e all’avanzamento dal punto di vista legislativo - il femminismo italiano si allontana dalla piazze per entrare nei luoghi istituzionali: l’università e la ricerca accademica; la politica e le pari opportunità.
Importantissimi, in questi decenni, i luoghi delle donne e l’elaborazione teorico/politica dei piccoli gruppi, simboli schizofrenici di un forte radicamento in ambito strettamente locale e di una propensione all’apertura all’ambito internazionale. Nella maggior parte dei casi, questi luoghi e questi piccoli gruppi, figli (e la parola non è casuale) delle femministe degli anni ‘70, per un istinto di protezione e difesa della propria produzione non hanno saputo comunicare con le nuove generazioni di femministe, spesso escludendole di fatto o relegandole al ruolo di “giovani” nell’eterna posizione di discenti.

La generazione di femministe nate tra gli anni settanta e gli anni novanta è una generazione di donne che non volevano simbolicamente uccidere le proprie madri, ma che si sono comunque trovate orfane di una storia che esse stesse hanno dovuto ricostruire, ma questa è un’altra storia.

*qui, qui e qui