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1 maggio 2012

Un ritorno forzato al privato o del lavoro, delle donne e delle emergenze

In occasione del primo maggio riprendo un vecchio pezzo che parla di una vecchia storia.

Durante la Prima Guerra Mondiale moltissime donne si ritrovarono ad essere impiegate in lavori che erano loro precedentemente preclusi a causa della situazione di emergenza.
Alla fine del conflitto la smobilitazione delle lavoratrici non fu immediata (sebbene fu efficace e ferma nel lungo periodo), tranne nel caso delle tranviere.
Più che sui dati statistici, occorre interrogarsi sul ruolo simbolico che ha avuto la smobilitazione, soprattutto in relazione al ritorno dei soldati dal fronte.
Appena finita la guerra le lavoratrici furono accusate di essere delle profittatrici, di volere usurpare il lavoro che, di diritto, spettava agli uomini che avevano combattuto per la patria. 
Emerse una vera e propria esigenza di “rimettere ogni cosa al proprio posto”, un vero e proprio rigoglio della privatizzazione” (Hirschman) centrato sulla famiglia e il bambino. Occorreva “da una parte, dare una nuova sicurezza ad un'identità maschile destabilizzata da quattro ani di anonimato nei combattimenti, dall'altra, cancellare la guerra, e rispondere, in un contesto di fervore sociale e reazione politica, al profondo bisogno dei reduci di ripristinare il vecchio ordine delle cose” (Thébaud).


Durante il conflitto il carattere di eccezionalità della presenza di corpi femminili dove il corpo femminile non ha luogo, viene continuamente sottolineato soprattutto ricorrendo alla simbologia donna - madre.
Immagine emblematica di tale rappresentazione è l’infermiera. La sua figura rappresenta nello stesso tempo il principale oggetto delle fantasie sessuali dei soldati e la proiezione della madre che si prende cura dei propri figli. Più si rafforza quest’immagine di una maternità che esce dai confini tradizionali, più il soldato - l’uomo - diventa indifeso e debole.
La simbologia materna viene sfruttata soprattutto per sminuire il valore della partecipazione femminile al conflitto, i sacrifici delle donne sono considerati ‘normali’, ‘comuni’, ‘naturali’, se sono finalizzati a mandare avanti la propria famiglia e tutelare i propri figli.
Un’altra questione interessante è quella che lega indissolubilmente, e forzosamente, la donna alla pace e l’uomo alla guerra.
È davvero così? L’esperienza della prima guerra mondiale dimostra il contrario. Se, infatti, da tempo il femminismo si era legato al pacifismo, l’esperienza della guerra fa sì che il nazionalismo diventi un sentimento molto forte anche per le donne “fino a quando durerà la guerra, le donne del nemico saranno anch’esse nemico” scriverà Jane Misme in un articolo del 1914.


Facendo un bilancio conclusivo del ruolo che ha giocato la Grande Guerra nella ridefinizione dei rapporti tra i sessi possiamo concludere che l’esperienza lavorativa ha accentuato ulteriormente le divisioni sessuali, collocando le donne sempre ai livelli più bassi della carriera, fino a considerare incompatibili il sesso femminile e l’ascesa nelle carriere lavorative.
Ha prevalso la volontà di riordinare il disordine conseguente alla guerra rinsaldando “i vecchi miti virili” (Thébaud): alle donne il compito di partorire e accudire i figli, agli uomini quello di combattere e conquistare.

Valentina

2 aprile 2011

Quale pacifismo e quali culture di pace

What kind of pacifism, what kind of pacifist culture: the feminist silence on the current libyan war.

L’inizio dell’intervento militare in Libia ha trovato il ‘popolo’ pacifista disorientato, determinando pericolose associazioni di idee, con il rischio di rendere nullo qualsiasi onesto tentativo di riflettere sulle cause del conflitto e le ragioni della non-violenza. Pacifisti di lungo corso si sono espressi a sostegno dell’intervento militare, ricordando il grave errore dell’Europa (Società delle nazioni) per non aver appoggiato i repubblicani spagnoli nel 1936; e chi, come Gheddafi, si è visto venir meno il sostegno mostratogli dalla comunità internazionale fino al giorno prima non ha esitato a definire nazista quell’azione. A parte l’anacronismo delle espressioni, pare che il ricorso alle simbologie di inizio Novecento stia accompagnando l’intera vicenda, ma nell’Italia smemorata del 2011 nessuno sembra ricordare che proprio cento anni fa andammo in Libia per soddisfare le nostre esigenze imperialiste. Allora i moti di piazza furono numerosi e molte furono anche le donne che protestarono contro la politica del governo [mi riservo un approfondimento in un altro post].
Oggi 2 aprile in varie piazze italiane e davanti a diversi Cie si sono riuniti gruppi politici e non, femministi e non, sotto lo slogan “il problema attuale non è più la lotta della democrazia contro il fascismo ma quello del fascismo nella democrazia (G. Galletta)”. Ecco un ‘nuovo’ slogan, il cui sound risulta troppo disturbato per poter superare le soglie della bassa propaganda, che nulla comunica a chi si colloca fuori dall’ombra protettrice delle bandiere ideologiche e certo non aiuta né gli insorti e né i migranti.
Quale pacifismo e quali culture di pace, dunque.
Speravo emergessero differenti voci di donne, credevo che la mobilitazione femminile di febbraio avesse lasciato qualche traccia.
In questo silenzio e di fronte ai tristi eventi in cui siamo precipitati solo due cose mi sembra opportuno ricordare, esattamente in quest’ordine:

Costituzione della Repubblica italiana

Art. 11
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Art. 10
L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.
MGrazia