30 aprile 2011
The day after, day after day
28 aprile 2011
Vogliamo tutto, ma tutto è quello che vogliamo?
Job, career, maternity for... Wonderwomen
A Bologna è tempo di elezioni. Qualche sera fa ascoltavo una giovane candidata di una lista di centrodestra raccontare che alla notizia della sua candidatura molte persone avevano osservato che, così facendo, “aveva scelto la carriera”. E che lei rifiutava questa opzione: “io voglio tutto”, diceva, figli, famiglia e carriera.
La giovane candidata era brillante e disponibile a mettersi in gioco in una sede storica del femminismo cittadino; non proprio il suo terreno, si intuiva. L'affermazione suonava come una conferma di tante parole d'ordine del femminismo, passato e presente, e per questo e per la sua spontaneità è stata immediatamente circondata da una corrente di simpatia. Che non voglio mettere in discussione, sarebbe davvero ingeneroso.
E' al femminismo che, ancora una volta, è giusto porre la questione, perché il femminismo ci ha insegnato una pratica di vigile coscienza e autocoscienza, individuale e di gruppo. Vogliamo tutto è uno slogan straordinario nella sua parte che allude al rifiuto consapevole della scissione tra pubblico e privato, tra razionalità e affettività, tra corpo e mente che è una delle pratiche più violente e pervasive della disciplina maschile dei generi e delle donne travestita da neutro universale. Vogliamo tutto è uno slogan ambiguo nel suo alludere ad un modello di onnipotenza e perfezione femminile con cui ci tengono in scacco nelle nostre vite concrete e quotidiane, nelle faccende di tutto i giorni. Non si può avere tutto – e non si tratta solo di arrendevole conformismo e vigliaccheria travestita da saggezza. Sarebbe ora che noi donne e femministe ci interrogassimo con più onestà sulla forma che la complicità femminile prende quando si manifesta come desiderio/aspirazione alla capacità di tenere miracolosamente insieme tutto. Non solo perché questo fa pagare a noi stesse un prezzo altissimo, che ben conosciamo e che è tutto interamente e solo nostro. I limiti esistono: va ammesso che la cura è spesso un lavoro spossante, totalizzante, faticoso, non sempre creativo e gioioso, che può escludere o limitare fortemente l'impegno in altre sfere della vita. Non ammetterlo, non riconoscerlo e riconoscerselo rovescia interamente su noi wonderwomen e sulle nostre straordinarie doti individuali quello che è un compito squisitamente sociale: costruire una mondo basato su relazioni sociali e di genere in cui, mentre si riconosce l'altro valore della cura, non lo si attribuisce solo alle donne o ai “servizi” ad esse dedicati (presto tagliati come un lusso incomprensibile alle prime difficoltà, se non si fa questo passaggio); e sarebbe a mio parere una società in cui per forza il pil, il denaro e l'accumulazione di ricchezza verrebbero perlomeno fortemente ridimensionati come esclusivi compiti umani.
Nella megamacchina del turbocapitalismo(di cui le donne, come dice bene Picchio, sono gli invisibili servo-meccanismi) per la cura, per i figli (o gli anziani, o i malati) non ci può essere davvero posto. Siamo bravissime, è vero, simpatica candidata: ma è ora di dire agli uomini che noi non possiamo fare tutto, e che se non vogliamo tutto, almeno sappiamo tutto quello che vogliamo.
27 aprile 2011
15 aprile 2011
Corpo, ancora una volta
12 aprile 2011
Donne e uomini nella crisi
Italian feminist wiews on work and employment: women and men in the economic crisis.
L’Associazione per il rinnovamento della sinistra ha organizzato l’8 aprile 2011 a Milano una giornata di riflessione dal titolo Donne e uomini nella crisi: letture e proposte del femminismo italiano. Molte le voci di donne, studiose e femministe con varie visioni della questione, e anche di uomini : trovate qui notizie precise sul l’appuntamento e su invitate/i.
Il dibattito interveniva sulla carne viva della crisi e ha avuto diversi spunti interessanti. Vi dico subito una cosa che ho apprezzato e una cosa che mi ha lasciata più perplessa. Ho apprezzato che si istruisse una discussione a partire da alcuni testi pubblicati negli ultimi due anni e li si indicasse prima, consentendo a tutti di approfondire gli argomenti, e che si proponessero le visioni – plurali, come i femminismi stessi – femministe per un confronto sulla crisi che stiamo vivendo tutti, uomini e donne. Ho apprezzato meno una certa aria di autoreferenzialità che ancora è circolata: sintomatico il richiamo, da più parti, alle generazioni della precarietà che non si sono mai ribellate – ma, con una grande manifestazione, in programma per il giorno dopo, più visibilità poteva essere data all'ascolto di una/un “giovane” precaria/o.
Vengo al mio nocciolo della questione. Mio, perché certamente altri potrebbero essere individuati. Il mio nocciolo è la crisi del lavoro: non solo crisi economica, ma anche di prospettiva, modello, desiderabilità, progetto di vita. Crisi del lavoro come mancanza di : arretramento, perdita di opportunità e di diritti, e, per le donne più che per gli uomini, di autonomia e libertà, col rischio di essere ricacciate in ruoli e stereotipi che si vogliono superati per sempre. Crisi del lavoro come logoramento del: critica profonda e radicale del modello della produzione fordista e capitalista, del lavoro salariato come unica via d’accesso ai diritti e alla autonomia, della sua capacità di fondare identità e progettualità di sé.
Da una parte si dice: se rinunciate alla rivendicazione di un lavoro stabile, garantito,contrattato collettivamente, fate a pezzi i diritti, e, con essi, le vite delle donne e degli uomini. Siete subalterni a questo turbocapitalismo feroce, parlate a una élite di privilegiate/i che possono concedersi il lusso di uscire dal meccanismo. E’ grosso modo la “parte” più vicina a istanze di cosiddetta “emancipazione”. Dall’altra si dice: se rinunciate alla critica a questo lavoro, a come si è organizzato e pensato, rinunciate a guardare fino in fondo la faccia del turbo capitalismo feroce, e a pensare alternative. Siete subalterni alle sue esigenze. E’ grosso modo la "parte "più vicina alle istanze di un femminismo che ha condotto molto precocemente la propria critica alla emancipazione tout-court.
La semplificazione dei termini del confronto, è ovviamente, ancora una volta mia. Come mio resta il dubbio su chi sia subalterno a chi. Non posso fare a meno di pensare che l’argine posto con tanta fatica e tanto dolore alla mercificazione totale del lavoro nel corso di decenni di lotte, abbia ceduto come sabbia di fronte all’urto della globalizzazione. Non posso fare a meno allora che, se non ora, quando? Bisogna tornare a intendersi su che cosa è il lavoro, a chi serve e a che cosa serve. Prima di tutto per le donne. Senza avere paura di abbandonare, nella sua ridefinizione di senso e di orizzonte, le sponde che consideriamo sicure: quando arriva lo tsunami, Giappone insegna, la terraferma rischia di non essere più tale.
Paola
10 aprile 2011
Scomparsa del corpo, assenza del soggetto
7 aprile 2011
letteralmente Alain Badiou
6 aprile 2011
Il nostro tempo è adesso - la vita non aspetta - Tutte/i in piazza il 9 aprile
The elephant in the room. There's no capitalism with a human face. It is necessary a new welfare state, it is necessary a basic income: NOW.
E’ vero che la vita non aspetta: ve lo può dire chi appartiene alla prima generazione di precari a vita, e arrivata sulla soglia della mezza età con prole assume pienamente (formulazione elegante per dire che ci sbatte il naso) che la sua condizione si è fatta permanente e non ha più tempo di modificarla. Perché se non cambia radicalmente la concezione dello Stato sociale, in direzione di un reddito di esistenza, anche uscire dalla precarietà lavorativa a più di quarant'anni – ancorché augurabile, intendiamoci – non mi restituirebbe la vita passata, la casa più adatta e dignitosa cui no non ho avuto accesso perché non potevo accendere un mutuo di un certo tipo o avere un contratto d’affitto migliore, una futura pensione cui non potrei comunque avere diritto perché, appunto, non c’è più tempo.
Non è solo questa la “generazione precaria”: ormai se ne accumulano diverse; ora semplicemente le condizioni mondiali sempre più difficili hanno spogliato definitivamente il re dei panni luccicanti di fondi di bottiglia che vestiva quando tutti saremmo diventati “liberi professionisti”, votati al successo e alla ricchezza. Lo sapevamo che era una bugia colossale: eppure le nostre grida di dolore si sono levate per quasi vent’anni nel silenzio assordante della politica. E’ che credere ottusamente alla crescita infinita della ricchezza e della disponibilità di merci, gadget, opportunità, diciamocelo, era consolatorio e gratificante per tutti: sì, le relazioni sociali si degradavano, l’ambiente attorno a noi era sopraffatto, le ingiustizie crescevano, ma il progresso avrebbe sistemato tutto, e il progresso, per definizione, non può essere fermato.
Bene scendere in piazza, finalmente, portarci i nostri corpi, pesanti esigenti e difettati, di uomini e donne che hanno bisogno di essere nutriti alcune volte al giorno, di essere curati quando si acciaccano, di essere accuditi nelle varie fasi della vita: tutte cose che ci hanno insegnato a trascurare per diventare più efficaci ingranaggi della macchina lanciata alla massima velocità. Noi siamo gli effetti collaterali del “turbo capitalismo”, esternalità, costi non rendicontabili. Al massimo grado le donne, che sono più difficili da ridurre al virtuale per l’accidente evoluzionistico che dà loro la possibilità (non il dovere) di partorire nuovi esseri umani. E’ vero che il nostro paese sconta una situazione peggiore e più disperata di altri per tante cose che sappiamo benissimo: ma non facciamoci troppe illusioni. Guardiamoci dietro le spalle, per non perdere la memoria storica di quello che ci ha appena preceduti, guardiamoci attorno, per capire che la crisi è globale e senza ritorno. Diversamente, sarà davvero difficile affrontare quello che ci aspetta con qualcosa di più che una confusa, irrealistica aspettativa di una giustizia che non arriverà.
Paola